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Interview | Paolo De Falco

Parliamo delle origini. Che tipo d’infanzia hai avuto?

L’ho vissuta in un’Italia molto diversa, tra la fine degli anni sessanta e i primi ‘70, avendo intorno le campagne e il mare salentino, le strade di una città lenta e segreta come Lecce. Sono nato in casa, su un tavolo di legno con l’acqua, la levatrice e le mani delle mie due nonne intorno a mia madre. Direi meglio che il bue e l’asino, no? Sono dunque venuto dal femminile… nel femminile. Poi ho giocato… tantissimo, con mio fratello e mia sorella da cui mi levo poco tempo, e con le cose, i luoghi, il tempo. Tutto era pieno di possibilità, la casa, la campagna e il mare, gli alberi, le strade, le vigne e le dune, i pozzi e la luce magica, i tetti dei cortili. Un’infanzia quindi col corpo e la mente sempre aperti, in continua oscillazione tra eccitazione e contemplazione. I bambini contemplano molto velocemente ma lo fanno con una tale purezza, una tale apertura che le cose scorrono e cullano l’anima… avvengono e spariscono nello stesso momento. È difficile trovare il rancore o la nostalgia nei bambini, si trova il dolore puro; puro nel senso che riflette il ritmo, l’andamento del mondo, tra luci e ombre. Mentre le cose scorrono il bambino va insieme a loro…   Ecco perché si rigenera continuamente…

 

E tra queste scene di famiglia, il cui ritmo pare scandito dai tempi dello scorrere incantato, mi colpisce quel tuo parlare di una continua oscillazione tra eccitazione e contemplazione…

Ho avuto un’infanzia vera, non recitata, non ammaestrata, gli adulti erano spesso assenti, una madre dolce, un padre misterioso. Ora capisco che queste forse sono le qualità più importanti di un genitore. La dolcezza e il mistero lasciano andare… permettono la ricerca, l’avventura. Così vagavo, spesso insieme ai miei fratelli, poi sempre più solo, vivendo un’esistenza intensa dove la magia sorgeva, stava sui miei piedi, stava accanto come un’ombra; era magica l’azione come anche quando mi fermavo a guardare…  a osservare. Perché l’osservare non era che uno stato, un ritmo diverso dello stesso abbandono, della stessa estasi. Credo che questo abbia a che fare con il sentimento dell’onnipotenza. Uno dei ricordi più vividi che ho dei miei 8 anni è quello di me accalorato che bevo l’acqua fresca attaccandomi al rubinetto di casa, dopo essere tornato dall’ebbrezza del gioco. Bevendo mi sentivo potente, imbattibile, fresco. Mi sentivo acqua. Quello stato, quel sentimento erano così intensi; la mia sete si liberava esaltandosi, mi faceva sentire invincibile… Per avere quel piacere dovevo avere sete. Così crescendo ho continuato a cercare, e l’arte è venuta in mio aiuto.

 

Di questo passo arriviamo inevitabilmente alla tua adolescenza, come è stata?

A tredici anni potevo scegliere tra lo sport e l’arte e, ahimè, ho scelto la seconda strada, cominciando a suonare e frequentare la musica. Peccato, perché avevo molto talento per lo sport e sarei diventato un calciatore… magari imbattibile. O un tennista. Facevo gare, mi piaceva. Imbattibile nel senso di non oscurabile… perché lo sport è meno doloroso: tra quello che fai e quello che sei ci sono meno ostacoli… La società ama più facilmente gli sportivi… gli artisti è meglio che crepino. Quando si è bambini si vuole essere amati solo perché si è al mondo, non per quello che si fa, per la prestazione, ma perché si ha questa possibilità di partecipare al gioco. Certo le competizioni ci sono tra bambini, tra fratelli, e se un adulto ti dice bravo ha un peso, ma fondamentalmente conta giocare… sentire che hai diritto di giocare per il solo fatto di essere venuto… nella vita. Giocare è… potente. Giocando sei potente. L’onnipotenza però va insieme al disagio, sono legati indissolubilmente. Per vari motivi. Chi si sente onnipotente impara presto anche il disagio di esserlo, la vergogna della propria potenza, la vanità della… vanità. Nell’infanzia si può correre nel bosco a perdifiato, come in Bambini sulla via maestra,il meraviglioso racconto di Kafka (che poi è diventato il mio primo film), e lo si fa, se non si ha una madre troppo castrante, anche se ci si mette o si è messi in disparte, se si è timidi, goffi, molto sensibili; nell’adolescenza invece la corsa si tramuta in balbuzie, in un andante intermittente, e cominci a sentire altre oscillazioni, a muoverti con esse, a ferirti per verificare se esisti. Ti tocchi… per vedere che succede e cominci a provare cos’è la morte, cos’è la vita. Uscire dall’infanzia, infatti, è il vero lutto, la vera morte della vita.

 

E a tal proposito, c’è stato un momento in cui hai dovuto vivere un primo punto di stacco e di svolta dall’infanzia? 

Quando mio nonno è morto la mia infanzia si è conclusa. Avevo 12 anni. Ero molto legato a lui. È stato uno dei primi architetti italiani e con lui ho imparato a leggere, disegnare, fantasticare. Fece due guerre e i suoi racconti del fronte sul Piave hanno formato la mia immaginazione… forse per questo ho fatto sempre le barricate nel mio teatro. Il lessico bellico è entrato nella mia ricerca del teatro, la notte, la resistenza, i suoni lontani e vicini, la vicinanza di un altro mondo o un altro tempo come in una realtà percepita, come nella fisica quantistica. Quando poi ho incontrato Kantor e ho visto realizzata sulla scena non tanto l’idea di un teatro della morte ma la poesia di una scena insieme così fisica e astratta, sensuale e metafisica, l’ho seguito a Cracovia come fosse mio nonno tornato da me. Ma lui, poco prima che arrivassi, morì improvvisamente al termine delle prove del suo ultimo spettacolo. Così restai lì a studiare nella magia di una città lontana e dolce, sospeso nel tempo. Intorno a me l’odore della storia, della vecchia Europa dei pittori e dei poeti, del mondo sovietico e il pulsare di una nuova epoca (era il 1992) che cominciava a dettare i suoi diktat ansiogeni, spegnendo gradualmente la febbre di quel Novecento che mi aveva dato non solo la vita ma anche il demone della ricerca. Quell’odore della Storia (dormì nei primi mesi in un collegio dove i nazisti avevano ucciso centinaia di persone) mi consegnò però all’assenza del tempo. In una stanzetta piccola come una prigione scrivevo e vagavo oltre le parole… guardavo la neve cadere. Non sono un nostalgico, essendo un creativo ho bisogno del domani. Tuttavia ho imparato che la morte non è qualcosa che ci aspetta solo davanti, ha a che fare soprattutto con le nostre radici, è ciò che ci permette di crescere… o meglio di nascere ogni volta. Forse non esiste crescita o ricerca senza abbandono. Le perdite si trasformano… sta a noi sentire il loro potere e lasciarlo scorrere nel mistero dell’esistenza.

 

Mi parlavi dell’ebbrezza del gioco e del ristoro dell’acqua, che placava la sete. Forse la tua infanzia non è “mai finita”, se proviamo a pensarla come uno stato dell’essere, anziché un passaggio anagrafico. Il fatto stesso che evocassi attraverso Kantor la figura di tuo nonno, mi pare lo sforzo, lirico e tenace, di non congedarsi da chi si è stati e da chi si è rimasti. Di recente, ho scoperto il termine “restanza” citato dall’antropologo Vito Teti. Per un abitante del mediterraneo, quale tu sei, che significato assume questa parola nell’arte cinematografica e musicale?

Il Mediterraneo è il luogo del mito. Sembra tutto perso, sepolto sotto il peso di questa tecnologica e superficiale società di massa, eppure a volte qualcosa torna. Torna perché è sepolto dentro di noi…  e noi siamo esseri fatti d’acqua. Credo che anche la coscienza sia un po’ come l’acqua. La memoria scorre… non è un atto della volontà. Inutile ricordare o peggio celebrare la memoria… La cosa più importante è abbandonarsi, lasciarsi andare, navigare nel tempo. Il tempo che non esiste. Ci sono alcune cose naturalmente che lo permettono più di altre e bisogna coltivare quelle. Penso allo stare nella natura, nei paesaggi, nella luce o nell’ombra che disegnano le cose, penso ai suoni, all’abitare la profondità e la verità del nostro corpo. Noi che siamo il nostro corpo, non che abbiamo un corpo…Purtroppo oggi l’abbandono è un’arte quasi impossibile; non è Dio che può essere in crisi ma ciò che ci fa percepire la sua assenza/presenza. Siamo nel deserto, nel vuoto che non sa di esserlo… che si specchia continuamente. Del resto per abbandonarsi bisogna avere qualcosa da abbandonare prima… no? Se non hai coltivato niente che abbandoni? Il nulla? Non riesco più a farmi ingannare dal caos, dai suoi mille bagliori e parole, dal linguaggio, dallo spettacolo di questa umanità patologica, il mondo ora è un deserto mascherato… come nelle feste parigine de la Traviata. Verdi come Baudelaire aveva già intuito come sarebbe andata a finire. La maschera però comincia a rivoltarsi… Non è un caso che il virus sia iniziato in Cina e poi in Italia… le culle del mondo.Di questa epoca non credo che resterà l’immagine, il cinema o la televisione che sono già l’archeologia contemporanea, ma l’odore della paura…Tra 200 anni, se guarderanno indietro, sentiranno questo, paura e stanchezza, e magari avranno un sentimento di tenera compassione per quell’umanità che aveva imprigionato il suo desiderio in scatole di metallo. Le morti dei clandestini nel Mediterraneo appariranno la cosa più viva…

 

Forse, occorre trovare nuovi modelli di umanità, intesi in senso non retorico, bensì fascinatorio e affabulante. Abbiamo bisogno di storie narrate o narranti  che rivitalizzino il senso civico, letteralmente lo sveglino. Sei d’accordo?

Credo che abbiamo bisogno non di linguaggio ma di silenzio e di corpo. Di stare col mistero. O di una parola sensibile e terapeutica. Una parola precisa e attenta come un bisturi. L’empatia comunque non ha tanto bisogno delle parole, il nostro corpo animale sa sentire l’altro, i suoi sentimenti, le sue paure, il suo desiderio. Il fascino dell’esistenza sta nel mistero del corpo di fronte allo spazio. Lo spazio dove ci sono anche le idee, le parole. Oltre che le cose. Penso che siamo come antenne e questo è la cosa più bella degli esseri umani. Sta a noi decidere se usarle sempre più o sempre meno. Forse le storie non esistono, circoscrivere, dare un inizio e una fine è un bisogno che abbiamo per illuderci, per contenere l’ansia, ma tutto scorre e se fossimo aperti andremmo a ritmo saremmo più insieme. Credo nel ritmo, nel suo potere… L’umanità ha solo bisogno di musica, di suoni… L’house music non mi piace però, è un ritmo esterno, non viene da dentro, non suona lì…

 

La contaminazione delle arti, gli innumerevoli viaggi che hai fatto, la passione per l’umanità, tutte queste cose ti hanno spinto a una versatilità che arricchisce la tua biografia di incontri e storie straordinarie. Dal teatro alla danza, dal cinema alla musica, è possibile parlare oggi di etica liquida e comunicante? Quanto la ricerca artistica può andare incontro ai problemi del mondo? Hai citato non a caso il Mediterraneo che ha nella fuga clandestina la sua atavica spina…

L’arte è ricerca. Più del suo prodotto finale, più dell’opera, ciò che è potente, molto più potente, è il processo che permette la creazione. Pochi magari sanno o vogliono accogliere la complessità e la profondità di un’opera d’arte ma se vedono l’artista al lavoro o meglio l’opera che lavora con e sull’artista, restano catturati…Bisogna essere dei capolavori diceva Carmelo Bene. Io ho provato a fare ricerca alla luce del sole, nascondendomi. In un artista il pubblico è dentro, non fuori. Lavoro da molti anni sostanzialmente in solitudine, prima o poi qualcuno se ne accorgerà…

 

In molti dei tuoi lavori, il silenzio è una creatura essenziale, percettibile, vivente. Penso a Via Appia o agli altri film in cui il non detto, il taciuto o il sommesso sono certamente rilievi di una fisionomia che nasce dall’indagine e sfuma nella condivisione, benché tu sia, su tua stessa ammissione, uno che lavora anche in solitario. In certe figure anziane che hai omaggiato e persino nella tua musica, il sottofondo del silenzio interiore è quasi una forma di rispetto verso l’altro. Come sei riuscito a conciliare tutto questo con gli artisti con cui hai inevitabilmente dovuto dividere ore ed ore di lavoro? Mi riferisco alle opere cinematografiche e musicali, soprattutto.

È una questione molto delicata e difficile da definire con le parole. Ogni volta, con ogni persona con cui si lavora o si vive è diverso. Incontrarsi è l’arte non solo della sopravvivenza ma, credo, anche dell’incanto e delle sorprese. Incontrare le anime… non tanto la psiche o i valori di riferimento delle persone. Le storie esistenziali non sono che il riflesso delle anime che camminano, si cercano. Tutto è sempre possibile… dovunque. Credo che il silenzio ci metta in contatto con questa infinità possibilità della vita. L’arte in fondo non fa altro che svelarci il mistero dell’incontro tra la vita e la morte. Tra il visibile e l’invisibile. Nel lavoro artistico cerco di assolvere, di affinare il mio istinto che mi porta verso questa soglia. Quello che ho studiato e continuo, in vari modi, a studiare e progettarenon fa altro che spingermi verso questa responsabilità. Credo che sia questa la tensione che mi porta a dirigere. E non è affatto facile. Specie ora. Dirigere è lasciare che la nave prenda il largo, salpi verso l’ignoto. Anche quando è conosciuto. Bisogna conoscere le vele, le loro possibilità e limiti, osservare il mare e il vento costantemente. Stare ben piantati per terra. Dirigere è essere diretti. Il silenzio aiuta, permette l’ascolto, che è la cosa più importante. È come un punto di partenza a cui sempre ritornare, una casa che aspetta. Il silenzio è la radice, ma noi ambiamo a crescere, a diramarci, a fare foglie o a perderle. Non ci resta che riconoscere che siamo comunque sempre in movimento e che siamo complessi, fatti di molte cose.

 

Ci sono parole oggi logore, svilite, quasi depotenziate, come rispetto. Il suo suono riecheggia a fatica, pare ingombrante…

Il rispetto è una questione fondamentale, però voglio aggiungere una cosa: credo che in questi anni abbiamo scambiato il rispetto per qualcos’altro. Spesso le persone, i rapporti restano sulla superficie per non entrare in conflitto. Per non intaccare la famosa libertà. Io credo che bisogna essere liberi anche dalla libertà. Credo nella liberazione, non nella libertà. La libertà non esiste. Le persone sono spesso stanche, sempre più apatiche, eppure osservando gli animali vedo che loro sembrano ancora abitare la vita con intensa attenzione e partecipazione. Io vivo con gli animali e sento che anche loro hanno dei desideri. Mi piacerebbe domandare agli etologi se gli animali di oggi sono diversi da quelli di100 o 1000 anni fa. Si sono stancati di vivere insieme? Ho un pollaio dove convivono varie specie di animali, ogni tanto litigano ma poi fanno la pace subito.

 

Mi colpisce quanto dici, ovvero che il rispetto verso gli altri stia acquisendo una forma quasi rinunciataria. Questo stato è più terribile dell’assenza di rispetto poiché può condurre a una indifferenza generalizzata. Gli animali, come scrivi, non sono indifferenti e nemmeno alcuni uomini o donne straordinari. Cos’è o qual è per te lo straordinario da persegure oggi? Puoi anche rispondermi che non esiste o che c’è invece, per assurdo, un ordinario a cui tornare…

Nulla esiste tranne ciò che non esiste dice Macbeth a sé stesso. Esiste un luogo a cui tornare pur sapendo che non c’è o non c’è più, non c’è mai stato e forse mai ci sarà. Perché se noi aspettiamo vuol dire che qualcosa ci aspetta…

 

Ed infine, perché stai studiando l’opera lirica? Quasi lo sforzo di giungere a una summa di arti che compendino la tua voglia di ricominciare ogni giorno…

Sforzo… è una parola interessante. Avevo voglia di studiare ancora, con umiltà e costanza. L’opera è un mondo schizofrenico, per tanti motivi. È un museo ma è anche un laboratorio. In Italia si fa sempre lo stesso repertorio, forse per soddisfare quest’immagine “tipica” che il mondo ha di noi. Siamo la mafia, la grande bellezza deturpata, l’opera lirica e il cibo buono. E allora produciamo opere che rispondano a questa aspettativa. Un giorno Violetta de la Traviata la smetterà di morire. La smetterà di vivere. Scenderà dal palco, dalle feste, da quella famiglia che aveva sempre desiderato e mai avuto e si guarderà allo specchio. I suoi capelli azzurri e la sua pelle vissuta accoglieranno la luce che di lato entra dalla finestra. Il suo vestito cadrà leggermente dal quadro. Le sue mani ancora candide cercheranno la musica lontana… Allora, come un sussurro, tutto le dirà di scendere e camminare nella notte nei vicoli, sui tetti. Di andare scalza e un po’ bagnata dove la musica aspetta. Dove c’è la barricata che da secoli accoglie le anime per insegnare loro a oscillare come lucciole. Per non morire, forse, con i soffi di troppa luce che gonfiano il mondo. Chissà…

Grazie, Paolo.

 


Intervista a Paolo De Falco: Il silenzio è la radice |C.S.

 

 

 

 

 

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