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Interview | Moira Ricci

C’è un contraccolpo saldo e risoluto nel passato di una fotografia: il suo futuro o, forse, un tempo verbale non ascrivibile ad alcuna convenzionale forma di qualificazione.
In fondo, cos’è il tempo? Un organo complesso, accecante, sovrapponibile oppure una conseguenza lineare di artifici fiondati nella nostra abitudine all’ordine? La fascinazione delle ipotesi non ha sufficiente carattere né strumenti di fronte all’immensità del tema. C’è, tuttavia, nell’arte della fotografia una consuetudine al ripasso, alla ripetizione, alla riproposizione della rievocazione. Come se il lago dell’immagine potesse insistentemente perdersi nel collasso di un sogno. E poi, guardando una foto, chi non ha mai desiderato tornare almeno una volta alle coincidenze che la originarono? Non parlo della cornice del luogo e degli eventi (non necessariamente degna d’essere rivissuta); mi riferisco all’aria dell’istante, alla perdita d’ogni controllo, là dove fummo, per pochi momenti, in balìa di una “messa a fuoco”.
È quel che accade, come una storia da raccontare, nel commovente libro fotografico di Moira Ricci, dal titolo icastico e definitivo: “20.12.53 – 10.08.04”, un piccolo capolavoro del sentimento, che si esprime in due date: quelle di una nascita e di una morte.
L’antefatto è questo: la madre dell’artista scompare improvvisamente il 10 agosto del 2004. La figlia, ancora molto giovane, ne ripercorre l’esistenza attraverso delle foto, che raccoglie, mette insieme: sua madre bambina, sua madre adolescente, poi donna; sua madre mentre balla, gioca, compie azioni domestiche, stira, cucina; sua madre in compagnia dei familiari, dei parenti, del fidanzato, poi futuro marito. Eppure, quel che sembra essere un comune album della memoria in verità espone la disappartenenza ad ogni aspettativa: nella perpetuità delle foto in cui la madre via via appare, entra anche la figlia. E lo fa concretamente: Moira Ricci è lì, al fianco della madre, autofotografatasi lei stessa, come se fosse stata da sempre adiacente e confinante ai momenti di vita della sua genitrice. “Anzitempo” e prevaricando ogni logica di spazio, l’artista sceglie di essere presente nell’esistenza di chi, dopo molti anni, scomparirà senza preavviso, lasciando aperta ed insensata la ferita di una sospensione. Cosa vuol significare questa figura filiale assidua nel fotogramma del passato? Un tentativo di comunicazione, forse: voler mettere in guardia la madre da quanto accadrà in un 10 agosto della vita? Un presagio nella forma ricomposta della figura: auto ritrarsi per illudersi di poter diventare messaggeri di un destino, correggerlo nelle sillabe silenziose e sommesse dell’immagine. Oppure: superare l’incognita della morte affermando se stesse nel legame con la vita materna – nulla di più indissolubile se l’immagine attesta il nodo dell’amore. La figura concretizza, realizza e, più d’ogni parola, presentifica nell’eterno, dove il tempo è finalmente battuto e non tocca con le sue unghie adunche la rovina d’ogni cosa.
In questo senso, l’opera di Moira Ricci ricorda un testo della poetessa Kikí Dimulà, edito nella raccolta “L’adolescenza dell’oblio” (Crocetti Editore), il cui titolo pure si fonda su una indicazione temporale: “Fotografia 1948”. Nondimeno, le date sono piccoli ancoraggi dell’esistenza che a volte servono a limitare l’intimidazione delle cose, quando chiamano ad interrogativi irrisolvibili.
Ecco il testo:

Tengo in mano un fiore, forse.


Strano.
Sembra che nella mia vita


sia passato un giardino, una volta.

Nell’altra mano


tengo un sasso.


Con grazia e fierezza.


Nessun sospetto


che mi si avverta di mutamenti,


che stia saggiando difese.


Sembra che nella mia vita


sia passata l’ignoranza, una volta.

Sorrido.


La curva del sorriso,


il cavo di questa inclinazione,


assomiglia a un arco ben teso,


pronto.


Sembra che nella mia vita


sia passato un bersaglio, una volta.


E l’inclinazione alla vittoria.

Lo sguardo immerso


nel peccato originale:


assaggia il frutto


proibito dell’attesa.


Sembra che nella mia vita


sia passata la fede, una volta.

La mia ombra, solo un gioco del sole.


Indossa una divisa d’esitazione.


Non ha ancora fatto in tempo a essere


mia compagna o mia delatrice.


Sembra che nella mia vita


sia passata l’abbondanza, una volta.

Tu non appari.


Ma se c’è una forra nel paesaggio


se mi sono fermata sul suo bordo


tenendo un fiore in mano


e sorridendo,
significa che fra un po’ verrai.


Sembra che nella mia vita


sia passata la vita, una volta.

Kikí Dimulà
(Traduzione di Filippomaria Pontani)

Del resto Kikí Dimulà è la poetessa delle foto, dell’adolescere nella foto-grafia, nella luce del verso che abbaglia senza escludere, che agguanta la sua presenza nel mondo e la conduce fiera sulla soglia di una domanda universale: cosa può un corpo di fronte alla sommità del mistero che lo impone sulla soglia di un rischio perenne? Un corrispettivo insomma, speculare lirico, di Moira Ricci. Entrambe, testimoni della lacerazione; entrambe evocatrici della forra, dell’interstizio che non cede a un rassegnato declino ma che anzi produce il bene della rivelazione: quel che è sempre stato riavviene nel mondo, riletto alla luce di nuove suggestioni.
Uno dei più grandi doni che un artista può fare è consegnare agli altri delle occasioni per comprendere lucidamente la realtà: non quelle dell’avvizzito cinismo dei distruttori e nemmeno quelle dell’incantamento a profusione dei sognatori; si tratta di paesaggi del concreto che si definiscono nel contesto etico ed estetico del pensiero umano e che chiamano a raccolta gli altri, invitandoli a una possibile e reale condivisione. Allora, Moira Ricci sicuramente ha risposto alla gravità del suo sacrificio, aprendo la ferita, ricucendola in comunione e non sparendo di fronte alla responsabilità di ogni eccesso, neanche a quella del dolore.
L’abbiamo incontrata a Milano, dove insegna Fotografia, e le abbiamo rivolto alcune domande.


 

Questo libro nasce innegabilmente da un dolore. La narrazione della sofferenza percorre sentieri spesso improbabili e inattesi, quando ha necessità di esprimersi. Come è nata l’opera “20.12.53 – 10.08.04” e quanto tempo le è occorso per realizzarla?

Sì, l’opera è nata da un dolore, ovvero dal primo momento in cui ho visto mia madre morta, all’improvviso, a causa di un incidente domestico. Fu un trauma, solamente otto ore prima l’avevo sentita al telefono. All’epoca ero ancora molto giovane, 27 anni, e avevo poca esperienza della morte. A parte i nonni, non avevo perso nessuno, ma era un’altra cosa. I nonni sai che prima o poi ti lasceranno; da una madre cinquantenne, energica e straordinaria, non ti aspetti una scomparsa così repentina e lacerante. L’idea del lavoro è nata immediatamente, il giorno successivo al funerale. Non smettevo di guardare le sue foto. Non accettavo di non vederla viva e le foto erano diventate l’unico mezzo per sentirla vicina. Sono andata a cercarla lì, nelle immagini del passato. La gente mi stava intorno e la guardava insieme a me. A un certo punto, per effetto del lexotan o di qualcosa che non so ben definire, ho immaginato di entrare in quelle foto per avvisarla di quanto le sarebbe accaduto o per illudermi che sarebbe tornata se le avessi rivolto lo sguardo insistentemente. Volevo solo questo: salvarla o permetterle di ritornare. Da parte mia non c’era alcun proposito artistico, solamente il desiderio di ricongiungermi a lei. Così iniziai a lavorare da subito, le uniche cose che mi distoglievano erano le faccende burocratiche da sbrigare. Per il resto iniziai a studiare le sue foto, a scansionarle, passandoci le giornate, tant’è che i miei parenti pensarono fossi uscita di testa; dopo cominciai a vestirmi con gli abiti del tempo di mia madre e ad autofotografarmi con un telecomandino che avevo acquistato apposta (nel 2004 non c’erano macchine digitali performanti e la mia era 4 mega). Immaginate la scena di me, ferma per gli autoscatti, con utensili o abiti d’altri anni: davvero i miei familiari pensarono fossi da manicomio.

 

La fotografia era quasi diventato un medium, un mezzo di percezione, una breccia…

Si, malgrado il lutto e il dolore, c’è stata la fortuna, anche in prospettiva della mia professione, di avere Photoshop. Se la scomparsa di mia madre fosse avvenuta qualche anno prima, non avrei potuto usufruire di quel mezzo, che peraltro mi apprestavo appena a conoscere (quando ho iniziato a lavorare, sapevo solo ritagliare e incollare!). Mi ci sono dedicata per dieci anni. Nel momento in cui, con l’elaborazione del lutto, si stava esaurendo l’urgenza, nel 2014 ho deciso di chiudere, in coincidenza di una mostra.

 

Il fatto che le immagini oggi persistano e che in qualche modo lei e sua madre siate per sempre nella immancabilità delle foto quanto ha “alleviato” il congedo?

Lo ha alleviato molto, ma mi sono anche fatta aiutare tanto dai libri e dalle persone. Ho condiviso il dolore, esprimerlo all’esterno è servito a renderlo, forse, più sostenibile.

 

Ciò che maggiormente mi colpisce, al di là della sua vita annidata in quella di sua madre, è il capovolgimento dei tempi: un “futuro del passato” che sfugge ad ogni dialettica di senso. Questo corto circuito mi pare un tentativo da parte sua di fronteggiare la morte, guardarla in faccia, entrare in discussione con lei, quasi “punirla” per quanto le ha sottratto, è d’accordo?

Certamente. Ma in quel momento volevo solo entrare nelle foto per salvare mia madre. Ho fatto questo tentativo. Successivamente, col tempo, anche confrontandomi con chi aveva assistito alla nascita del lavoro, ho consapevolizzato e maturato visioni dell’opera diverse e alternative. E poiché mia madre è venuta a mancare nell’imminenza della discussione della mia tesi di laurea (mi sarei dovuta laureare a settembre e lei è morta il 10 agosto), avendo rimandato per ovvie ragioni quell’appuntamento, mi sono messa a ristudiare e a cercare gli artisti che avevano lavorato sull’esperienza della morte dei propri cari – penso a Pasolini e a sua madre; a Proust e a sua nonna; a Richard Avedon; ad Alina Marazzi che ha realizzato uno straordinario documentario sulla madre Un’ora sola ti vorrei e a tanti altri. Ho modificato l’argomento della tesi adattandolo a questo tema e, quando sono andata ad esporlo, un professore della commissione, Antonio Caronia, si inginocchiò e mi disse che si inchinava davanti al mio coraggio di voler morire insieme a mia madre. Aggiunse che se la foto è morte, io certamente desideravo sparire con lei. Il suo discorso fu intenso, lo espresse meglio di così, naturalmente. Sono passati molti anni ed io non lo registrai.
Un’altra cosa: ho studiato al Bauer, lì avevo letto La camera chiara di Roland Barthes, dove c’è scritto (vado a memoria) che i Greci entravano a ritroso nella morte per capirla. Proprio così, “a ritroso”. Chissà, forse questo passaggio è entrato in me ed è poi riemerso, influenzando il mio lavoro.

 

Un’altra cosa che mi impressiona è lo sguardo. Nelle foto lei guarda sempre sua madre. Guardare è amare dietro le quinte della percezione, poiché alla vista, più che ad ogni altro senso, si concede il retro-pensiero autentico di chi siamo, di quanto ancora desideriamo. Cos’è lo “sguardo” in quest’opera e cos’è per lei, in generale?
Lo sguardo è il come vedere le cose. Non so darti una definizione precisa. Ai miei studenti dico: hai un bello sguardo! Intendo evidenziare la forma o lo stile attraverso cui una certa cosa viene individuata. Per il resto, mi soffermo su tanti aspetti del ritrarre, non seguo strade uniche; gli stessi strumenti e mezzi che utilizzo li manipolo sulla base di quel che voglio rappresentare.

 

Sei un’artista versatile… Lavori con altre arti, ad esempio con la musica?
Non so suonare, ma so ballare. Mia madre avrebbe voluto che facessi la ballerina, perché ero portata, ma a me non piaceva quel mondo, così ricco di competizione (in seguito ho svolto un lavoro sulla danza nato dal senso di colpa di non avere mai soddisfatto il desiderio di mia madre). Sono poi passata per diverse discipline artistiche. Al liceo artistico mi annoiavo a copiare dal vero, poi un professore, non so come mai – per simpatia o perché aveva intuito delle cose – mi mostrò un libro di Cindy Sherman, artista con cui si creò un legame intensissimo e significativo in cui c’entra anche mia madre. Fu lei a regalarmi per il diciottesimo compleanno un libro molto desiderato di Sherman perché entrambe avevamo ravvisato delle forti somiglianze di vedute.
Dopo molti anni, nel 2009, a Palazzo Strozzi ho esposto proprio con Sherman. I suoi autoritratti concettuali o calati in altri panni e in altri contesti ci avvicinano molto.

 

In un tempo ammassato di orientamenti, denso di contaminazioni social, che fa delle immagini uno status symbol per tutti (non si è credibili se non ci si autoproietta nella vetrina mediatica), che responsabilità ha l’arte fotografica?

Ci penso spesso perché mi piace fare delle cose utili, oltre che belle. Quando immagino un progetto, tendo a chiedere a me stessa se qualcosa di quello che faccio può “arrivare” agli altri. Essendo in grado di mettermi nei panni altrui, è come se distaccassi il mio sguardo, proponendomi di comunicare il più possibile quanto voglio esprimere.

A quali progetti stai lavorando attualmente?
Ho quattro o cinque progetti fermi dal 2018, non realizzati perché non sono stati accettati dalle istituzioni, forse a causa del loro contenuto provocatorio. Ho in corso un lavoro iniziato nel 2020 per dei collezionisti e che si riferisce al periodo del primo lockdown. Dovrei lavorare anche per altri privati, ma la mia attività di docenza (insegno Fotografia) ultimamente occupa gran parte del mio tempo.

 



Il libro 20.12.53 – 10.08.04 è a cura di Roberta Valtorta. Si è aggiudicato il PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. È stato realizzato dal MUFOCO Museo di Fotografia Contemporanea e da Corraini Edizioni.
All images courtesy of Moira Ricci

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