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Interview | Giuseppe Goffredo

Poet and writer Giuseppe Goffredo was born in Alberobello, Puglia, awarded in 1987 with the Pier Paolo Pasolini Prize. We had the chance to interview him to discuss his poetry and talk about it conceptually and technically, as well as getting an overview of the artistic influences behind his work.



Mi piacerebbe partire dalla dedica con cui apri il tuo libro “Soli con il mondo” (Poiesis Editrice, 2020), un omaggio alla studiosa e professoressa Maria Semeraro. Poiché ho conosciuto anche io questa donna straordinaria, vorrei mi parlassi ancora un po’ di lei…

Tutta la mia vita si è svolta al femminile. Ogni svolta è stata dentro questa cifra. Incontrai Maria Semeraro, insegnante nella seconda classe di un istituto commerciale: lei era là dietro una cattedra, io ero dall’altra parte di un banco. Entrambi imbarazzati e fuori ruolo. Eravamo in sostanza da un’altra parte. E quella parte era nel discorso prima di riconoscerci. Non potevo farlo io. Lo ha fatto lei. Lo ha deciso uscendo dalle sovrastrutture in cui eravamo. Ha detto a un ragazzino di quattordici anni dopo un tema sul Leopardi: “tu sei un Poeta”. E lo ha detto davanti a tutti gli altri compagni. In quel momento è apparso un destino. Si è compiuta una svolta. Si è aperta una strada davanti a me. La parola pronunciata è stata definitiva. Lei vedeva. Aveva visto quello che a me stesso non era ancora visibile. In seguito Maria ha difeso tale destino anche agli occhi di mia madre che l’aveva segretamente scongiurata: “non lo fare poeta”. Entrambe sapevano il significato di quella parola. Entrambe sapevano che in nessun modo potevano cambiare quel destino. Più tardi altre donne sono state importanti nel mio cammino; fra esse: Amelia Rosselli, con la quale ho intrattenuto un rapporto poetico e umano straordinario, e Natalia Ginzburg che mi ha permesso in giovane età di pubblicare con Einaudi. Ora so che il rapporto fra me Amelia e Natalia Ginzburg ha avuto di mezzo l’ombra di Rocco Scotellaro. Rocco aveva conosciuto entrambe intrattenendo una relazione d’amore con Amelia e di simpatia con Natalia. La morte precoce del poeta lucano aveva interrotto tale legame. In particolare la Ginzburg non aveva potuto evitare la bocciatura voluta da Cesare Pavese delle poesie di Scotellaro presso Einaudi. Credo, così, che trent’anni dopo, le due donne vedessero in me, a mia insaputa, quel ragazzo del Sud (Scotellaro) che scriveva poesia e che tornava a bussare alle loro porte. L’incontro con loro, però, era nel destino che Maria Semeraro mi aveva assegnato.

 

 

“Soli con il mondo” è una sorta di diario di confino, di isolamento, scritto tra febbraio e giugno del 2020, in pieno anno pandemico. Il titolo è emblematico. Essere soli con il mondo. È quel “con” che mi spinge a una riflessione: sembra quasi che condividere uno spazio comune con il mondo, appunto, non equivalga ad esserne parte; l’altra interpretazione potrebbe essere: siamo inermi e indifesi nel fronteggiare il pianeta su cui viviamo?

Quando tutto il mondo sarà uniformato nell’abbrutimento dove andremo? Cosa potremo fare? Si moltiplicano le difficoltà e arretra la possibilità di vivere. C’è in giro una strana stanchezza che inghiotte. Nel corso del tempo la fatica di tenere in piedi l’umanità, arretra. Questo tempo che irrompe con violenza mi fa paura poiché mi dice che stiamo perdendo la nostra capacità di recuperare alla luce del buon senso. Scorrono dai social – apparentemente segno di libertà – una valanga di parole ormai incontrollate e caotiche che possono portare al rancore. La quantità senza la qualità del linguaggio determina una lucidatura martellante alla quale non corrispondono le cose e il vero. Le persone sono con la testa dentro la furia del fiume che scorre in maniera vorticosa e maleodorante. Nessun significato da cercare. L’effetto mentale è devastante. Tutti corrono verso qualcosa senza chiedersi qual è la direzione. E’ una corsa perturbante dove chiunque si oppone, pensa diversamente, è messo ai margini e considerato inadeguato e perdente.
Nel microsecondo in cui scrivo, sono atterrito da questa solitudine. Solitudine confusa dell’umanità che si allontana da se stessa, che non sa ritrovare la strada, che rischia di aggravare la sua condizione sottoposta ora all’assedio del coronavirus, variante che si aggiunge a uno stato di crisi già in atto: ambiente, guerre, distruzioni, cattivi sentimenti. Uno stato di crisi che l’umanità sembra non riesca più a contenere: per farlo, so bene e sappiamo, l’individuo singolo e le comunità dovrebbero farsi consapevoli, cambiare modelli di vita, pensare diversamente. E invece, la macchina in moto trascina tutto e tutti in una danza sgangherata che ha perduto la sua direzione e la sua misura. Una quantità gigantesca di energia negativa accelera la velocità della macchina che ogni giorno si mangia sforzi, fiducia, speranze, territori, foreste, ossigeno, pezzi di natura, quote di immaginazione. Aumenta anche per questo la cattiveria e si assottiglia la riserva di umanità, ovvero la capacità di vedere noi stessi e fare posto dentro di noi all’altro: accompagnare il mondo nella bellezza e nel desiderio di essere. Paradossalmente il Covid, mentre spinge tutti nell’unico cerchio del “legame di sorte”, isola, divide, contrappone i singoli, le collettività, le geografie. È questo lo smarrimento che vedo.
La nostra unica speranza, allora, per non arrenderci alla storia è inseguire una storia dell’umanità meno attuale. Riprendere la strada. Sapere che un domani è possibile. Cominciare e ricominciare. Lasciare che qualcuno possa continuare dopo il nostro soccombere. Ricomporre la verità e la speranza. La forza di credere. Penso questo sia nei geni e nei nervi di ogni vivente. Un fiore, un albero, uno scoiattolo, un uomo. Il vivente creato, credo sia un atto intero e chiaro. Esso ha la forza di vivere in se è per sé. Possiamo cercarne la ragione. Non so se è possibile trovarla. Forse qualche volta e per qualche istante, sì, poi la grandezza stessa ci sovrasta e ci sottomette. Eppure noi facciamo parte di tale chiarezza e interezza. Dovremmo infine dichiarare la resa e lasciarci conquistare dalla bellezza.

 

Il libro spinge a molteplici spunti di discussione e tocca temi di dolorosa attualità: dal problema dell’ambiente ai grandi flussi migratori che attraversano l’Europa e il Mediterraneo; dai collassi mediatici alla contraddittoria incomunicabilità che interessa gli uomini e al contempo tutte le specie viventi; dalla povertà secolare di terre e popoli abbandonati a se stessi alle ricche iniezioni di benessere gratuito toccate in sorte ad altri per immeritate fortune o ingiustizie ataviche. Come si contrasta tutto questo partendo dal proprio cuore, che è forse il centro e il paese di ogni inizio, di ogni incominciamento?

Fai cenno al Mediterraneo. Sai quanto ho lavorato in questa direzione. L’Italia è al centro del Mediterraneo, ed il Mediterraneo è al centro di tre continenti: Asia, Africa ed Europa. La memoria della soggettività culturale italiana è composta dalla sedimentazione nel tempo e nello spazio di saperi, lingue e mescolanze genetiche, derivanti dal rapporto fra le diverse rive. Niente attorno al Mediterraneo è rimasto là dove è nato. Tutto per effetto di migrazione, commerci, conflitti è entrato in comunicazione con l’altro. Ogni civiltà nell’incontro e scontro ha appreso e ha dato. La circolazione costante ha determinato di mano in mano una sintesi e un rilancio. Dobbiamo sapere che siamo stati e siamo parte di un movimento incessante fra le rive dove le vene si dipartono da un’unica valvola cardiaca che pulsa civiltà e modi di vivere. Non ci sarebbe potuto essere sviluppo nella storia culturale e civile europea senza l’apporto dei mediterranei e il Mediterraneo attraverso l’Italia a cominciare dalla Sicilia. Per questo continuo a ripetere che chi arriva sulle nostre coste in realtà ritorna. La mia soggettività culturale e umana può completarsi quando l’altro arriva con il suo racconto. Siamo noi la riva.
La soggettività costituisce la forza personale su cui ognuno di noi può far leva, è sulla Terra comune del Noi che può germogliare la salvezza della specie e del pianeta. L’io e gli insieme degli “ii”, possono sicuramente mettersi in piedi con coraggio, ma è il Noi che costituisce l’humus in cui ritrovarsi e crescere. “La terra desolata” può essere fecondata dal “Patmos”; lo dico con due poeti: Eliot: “Vedo folle di gente che girano in tondo” (da Terra desolata) e Holderlin “dove c’è pericolo, cresce anche ciò che da salvezza” (da Patmos). E’ proprio così: questi momenti di dolore devono renderci più lucidi e presenti, più forti e consapevoli. L’io può risolversi solo nel noi. Sicché ogni io, riflettendo su se stesso, deve ritrovare il noi. Il destino dell’io è il noi ed il noi è il luogo dove l’io davvero può realizzare il suo futuro. Nord, sud, oriente, occidente, città, periferie, territori: se il noi in un luogo è degradato, povero di relazioni e di progetti, sull’io peseranno tutte le patologie del noi. La cura del noi per questo deve procedere di pari passo alla cura dell’io. Nessuno sarà felice dentro la rovina di una terra desolata. L’eremita, persino, vive la solitudine come dialogo profondo con il mondo. Egli sa che il suo eremitaggio è vissuto per sostenere il mondo. Non c’è uomo più bisognoso del mondo che l’eremita. Il suo eremitaggio è fatto per essere in comunione profonda con il mondo. L’eremita dimentica se stesso per fare posto al mondo. È quando il mondo entra dentro di lui che l’eremita è felice. Scrive Papa Francesco: “Siamo nati creature amate (…) in un mondo che c’è da molto prima di noi.” e aggiunge: “l’era moderna, così assorta a sviluppare e a progettare l’uguaglianza e la libertà (…) da ora in avanti deve raggiungere la fratellanza”. Credo che la fratellanza, anche quella invocata dagli illuministi, sia una risposta superiore persino alla cittadinanza, poiché implica quello che ho chiamato il “legame di sorte”: il riconoscere l’altro nella propria umanità e sapere di poter essere in quella dell’altro. La fratellanza appunto è quel Noi, prima dell’io di cui tutti ne siamo responsabili e custodi. In questo senso dicevo: siamo noi la riva di chi arriva.

 

Photo by Karl Fredrickson

 

Scrivi “del Giano neocapitalista che si è impossessato del mondo e che produce ideologie estreme approfittando della crisi culturale che attanaglia la specie umana”. Il virus, in questo senso, è diretta filiazione – se non alleato intrinseco – del contesto di cui parli?

Il nemico invisibile in questi giorni è il virus. Il coronavirus. Il cosiddetto Covid19. Questo invisibile, astuto mutante ha forato, con la sua testa di spillo, la bolla in cui si era rinchiusa l’umanità. È lui che porta infezione e morte; diffonde il contagio con una spietatezza impressionante. Potenti e sprovveduti, miserabili e presupponenti: il Covid miete vittime in ogni condizione, ceto, angolo e continente.
La globalizzazione è una forbice affilatissima che negli ultimi trent’anni ha moltiplicato le disuguaglianze e le ingiustizie. Il Covid19 è un embolo partito dall’insostenibilità del sistema portato all’estremo. Esso segue le traiettorie già in atto. L’ambiente maltrattato ha generato il virus e la velocità con la quale il sistema funziona lo ha disseminato sull’intero pianeta. Il virus, occorre precisare, non è stato veicolato dagli sbarchi dei migranti ma da business class con valigia ventiquattore, ospiti di hotel di lusso. Il tubetto del neoliberismo è schizzato dal centro del sistema (Cina, Europa, Stati Uniti) e non dalla sua periferia. A questo punto, però, il male covato all’interno dell’organismo ha inceppato il sistema stesso.
Il contagio costringe a fare quello che il sistema non prevedeva: azzerare la narrazione che l’Occidente ha imposto: competizione, realizzazione, successo, forza, velocità, scontro, espansione, guerra, conquista. Così è difficile accettare che un mattino ci si svegli e occorra seguire un altro copione: autosospendersi, fermarsi, meditare, riconsiderare, rimodellarsi. È questo contrordine, che genera la contrazione. Un minuscolo virus si inietta nelle fasce muscolari predisposti all’azione e ne blocca in modo doloroso lo slancio. Tutto quello cui eravamo abituati: fare, pensare, desiderare, non si può, anzi non si deve più fare.
Samuel Huntington, per giustificare la sua guerra di civiltà, negli anni Novanta, all’inizio dell’ondata di globalizzazione e alla fine della Guerra Fredda, scriveva: “Le grandi cause di divisioni dell’umanità e le principali fonti di conflitto saranno culturali”. Con questa affermazione lo stratega americano in realtà voleva dire che nello scontro fra modelli culturali il sud e le culture minoritarie dovevano avere la peggio. Il neoliberismo, come ben sapeva Huntington, ha la forza di imporre un linguaggio unico al mondo, in tale schema la fragilità dei deboli deve comportare l’abiura di sé e l’accettazione della ideologia del più forte. Di fatto, se la cibernetica ha spalancato le porte dell’interconnessione planetaria, i poteri stessi della comunicazione social hanno omologato la complessità culturale generando il popolo del “facile.it”. È proprio nelle pieghe di questo appiattimento culturale che si è sprigionato un sovranismo semplificatorio le cui forze regressive hanno potuto rivendicare i privilegi della globalizzazione e il primato di un nazionalismo sovranista. La contraddizione è solo apparente; l’ideologia globalista in effetti alimenta in sé il germe della cultura sovranista perché ne ha bisogno, la utilizza a proprio vantaggio. Di fatto, se la globalizzazione predica un mondo connesso, aperto, dotato di accordi per il libero scambio (merci, capitali, informazioni) dall’altro chiude le porte in faccia ai migranti e ai popoli diseredati. La libertà di movimento è prevista per le merci ma non per i “dannati della terra”. In qualche maniera il dispotismo populista trumpiano con il suo fascismo sarcastico e consumista è più gradito alle holdyng globaliste che non una società consapevole, umanista, progettuale, democratica. L’Ego della vita privilegiata ed esclusiva che poggia sullo strascico dell’ideologia coloniale e orientalista, lo stesso su cui si basò il nazi-fascismo, in realtà funziona bene con l’idea neoliberista di produzioni e smercio senza freni, poiché persegue l’assoggettamento delle masse e lo sfruttamento di alcune regioni e risorse della terra. Gli spettri del terrorismo, del virus, delle dittature, accompagnate da ideologie regressive e razziste, si sposano benissimo con questo disegno. Sono, come dire, agenti facilitatori. Raggiungono e penetrano nel soggetto con la forza di uno a uno e incidono sul comportamento della grande massa delle persone.
I negazionisti in malafede, per esempio, dicono: il virus è invisibile, io non lo vedo allora non c’è, perciò noi scendiamo nelle piazze e gridiamo contro chi ci vuole togliere la libertà. Questo atteggiamento si basa sul fatto che il virus non appare, e chi è contagiato deve isolarsi. Per questo il gioco fra chi lo nega e chi subisce il virus si fa paradossale. Chi ha il Covid non può mostrarlo, chi va in piazza fa finta che non è vero. In definitiva i negazionisti lavorano in favore dei globalisti: se il virus non c’è: comportamenti, abitudini, produzione e consumi devono andare avanti come prima. È questa la politica regressiva del tanto peggio tanto meglio. Questa è la teoria del “fascismo eterno” che Umberto Eco, riprese da Primo Levi. Temo allora che, come già stiamo assistendo per la distribuzione e l’uso dei vaccini, il Covid19 spaccherà il mondo in “sommersi e salvati”, appestati e guariti, con in mezzo una immensa “zona grigia”.
Il male, è vero, può raggiungere le tenebre più profonde. Ma sappiamo anche che il sapiens sapiens può riemergere dalle sue ceneri. Nascere, rinascere, tornare, ogni volta, a meravigliarsi, innamorarsi, amare. Sapere che tutto con tutto si tiene. Tutto con tutto si abbraccia. Tutto con tutto si dà forza. Unica è la luce che si sprigiona in ogni angolo dell’universo. Se io sono, sono perché tutto con me vive. Tutto è in essere. Nulla è fuori da ciò esiste: visibile e invisibile. Il visibile penso che è la parte in fondo più ristretta del tutto mentre l’invisibile è la parte più grande. Per questo la forza della resilienza può essere enorme e inarrestabile. So che in questo momento tutto appare regredire, sottrarsi, non avere forza sufficiente per farcela, eppure, eppure tutto riprenderà il suo cammino. È la stessa volontà di immaginare che rimetterà in sesto l’umanità. Così, non riesco a fare distinzioni di nessun genere: né sociale, né culturale, ne geografica, né religiosa: immagino tutta l’umanità possa fronteggiare questa prova della pandemia e rimettersi in piedi.

Photo by Annie Spratt

Oltre che poeta e prosatore, sei anche editore. Quanto ha risentito della crisi la casa editrice Poiesis, che onori e sostieni autonomamente fuori da logiche politiche di consumo e opportunismo?

In una società che non ha più e non deve avere il tempo di leggere, scrivere, pensare, i libri e le arti sono considerati nient’altro che un passatempo: una merce da consumare in modo passivo e distratto. La poesia, la musica, il teatro non devono catturare o suggerire l’idea di quello che si vive. L’esistenza e l’esistente devono essere appannaggio di esperti. E gli esperti sono quelli che stabiliscono e riproducono il linguaggio del sistema. Sicché la letteratura non è vera se non coincide con un genere merceologico richiesto: noir, rosa, giallo, cucina, geografia, fantasy. Il sistema è una sfera chiusa che non si lascia infiltrare se non dall’algoritmo prestabilito. Che valore può avere, allora, l’esperienza di un poeta, di un musicista, di uno scrittore? Al contrario essa dev’essere neutralizzata e messa a disposizione del mercato. E tutto questo processo diffondersi attraverso una persuasione continua, massiccia, uniforme, scientifica, nelle mani di chi accetta le regole del gioco. Forse è per tutte queste ragioni che ho deciso di fondare una casa Editrice: la Poiesis Editrice. L’idea è quella di difendere uno spazio indipendente di scrittura e di pensiero, che privilegi la libertà e la qualità, dando voce ad autori e provenienze che in Italia sono trascurati. E chiaro che il Covid sta chiudendo molte possibilità, dimezzando drasticamente l’attenzione verso proposizioni editoriali diverse. Ma non è detto che questa crisi non apra a una lettura del mondo differente. Gli editori in generale non pubblicano più poesia e i lettori non la richiedono. Il mondo tecnologico diventa man mano muto e assente. Produce angoscia ma non la riflette. L’individuo nato e cresciuto nella greppia della globalizzazione non sa e non immagina. Alcuni poeti di “carriera” sottostanno facilmente a questo dettato. Altri, altre, però, restano fedeli a una sensibilità di luce capace di partorire preveggenza. So che questo tempo cupo passerà: vorrei che Poiesis Editrice restasse uno spazio aperto a disposizione di menti e anime capaci di esprimere visioni diverse del vivere.

 

“La tentazione della nostalgia” è il titolo di un libro scritto di recente dal poeta greco Titos Patrikios. Anche il professore e ricercatore Vito Teti ha pubblicato da poco un libro sul tema della nostalgia, tentando di osservarne, però, i risvolti meno battuti e scontati, quelli che possono diventare, per un giro miracoloso delle intenzioni e delle azioni, anche proficui e spendibili nel presente. Nel tuo stesso libro-diario, libro-anima, libro-confessione, scrivi che certi odori, situazioni, ricordi ti riportano a delle felicità perdute in cui il senso dello stare insieme agli altri acquistava un valore certo, brillante, virgineo e saldo. Il rischio di autoescludersi dal mondo esiste? Come riuscire a non farsi intrappolare dalle maglie dei sentimentalismi passivi e inoperosi?

Nostalgia: la tua citazione di Titos Patrikios mi rievoca l’amicizia con lui e le numerose volte che dagli Ottanta è tornato in Puglia, per i Seminari di Marzo. Grande uomo poeta e amico. Idealmente qui, in qualche modo lo abbraccio.
Il nostos che mi tocca è una eco lontanissima e remota. È racchiuso in un ampolla su un divano. Io mi avvicino all’ampolla, la capovolgo e la neve cade nell’acqua dell’aria. Nel fondo appare una baia di luce e il mare di una città: Rapallo. In quel luogo della Liguria è nata mia madre. Da quel golfo è stata strappata con violenza quando aveva tre anni. Là, per la prima volta, ho visto il mare, in braccio a lei, in un giorno luminoso di ottobre, credo nel 1958. Rapallo contiene il fruscio sonoro di una delle prime parole ascoltate. Il luogo del nostos è sceso in me insieme al latte materno. Il nostos mi ha consegnato il gomitolo del trauma: il trauma del distacco vissuto, il trauma della lingua originaria perduta, il trauma dell’abbandono del padre. Mia madre mettendomi al mondo mi ha affidato: il lutto del non ritorno. Ora Rapallo è la mia Itaca. L’Itaca impossibile da raggiungere. Il luogo della madre nel trauma del non ritorno. Assenza ed esilio irrimediabili che hanno generato in me il viaggio della poesia nel tentativo incolmabile di raggiungere e porre riparo al nostos della madre. Sua terra. Sua luce. Suo strazio. Come sapeva Erza Pound che si stabilì a Rapallo mentre mia madre era costretta a lasciarla (1925/26): “Ammettere l’errore e tenere al giusto:/ carità talvolta io l’ebbi./ Non riesco a farla fluire./ Un po’ di luce come un barlume/ per ricondurre allo splendore” (Erza Pound “Canti”). Ora io so che nessun ritorno sara possibile poiché la poesia in fondo non è che un atto d’amore dove non vi è nessun approdo ma solo la possibilità del canto.

 

Alberobello by Fosco Maraini

 

Alberobello è il posto in cui vivi. Luogo simbolico che esprime unicità e diversità in un unico frutto. Tra le sue strade, i suoi muretti a secco (“esempi di civiltà”, come dici) e i suoi trulli, la parola avanza e chiama. La narrazione per l’altro e con l’altro non può essere sola utopia, non può arrestarsi alla sola suggestione. Esiste una semantica del paesaggio?

I luoghi dentro la nostra anima sono prima dei territori. Dentro il luogo ci sono le archai: memoria del mondo iscritte nei luoghi. Il luogo è la preesistenza. Il luogo è il tuo provenire. Il luogo è la tua persistenza. I luoghi sono le pareti che orientano lo sguardo verso il mondo. I luoghi sono la nostra luce. Sicché preesistenza e persistenza coincidono con il nostro essere.
Sono nato ad Alberobello. E già è nel nome il discendere estremo del luogo. Il venire al mondo è stato un ritrovarsi in una caverna bianca. Nella rotondità astrale di un tempio. Fra un gregge lanoso di pietre chiomate. “E’ difficile raccontare la purezza del cielo, in quella domenica sera ad Alberobello” scrive Pasolini nel marzo del 1951. Paesaggio creaturale del nascere: Alberobello è impossibile da raccontare. Luce. Colori. Profumi. Volti. Stagioni. Goccia dopo goccia quel latte di sembianza scende in me come il luogo primordiale del viso. C’è una fotografia scattata nel 1952, dall’antropologo Fosco Maraini, di Alberobello: in essa la città appare in quella immagine piccola, raccolta, infantile, per me quella è, quattro anni prima che nascessi: il luogo del viso. Orti. Giardini. Scale. Alberi. Trulli. Finestrelle. L’aura irripetibile del luogo si sprigiona nell’aria come una tarantella mistica. Alberobello: signora in bianco sulla collina di Monet. Danza di colombe picassiane. Granada nel canto serale di Lorca. Bellezza. Memoria. Mistero. Così lo sguardo del paesaggio è precipitato dentro di me diventando il luogo del viso.

 

Nel libro citi dei versi, quasi profetici, di Zanzotto, citi dei versi commoventi di Saffo, ispiri alla grandezza e al conforto dell’arte. Ma paralleli alla scrittura ci sono il fare e il mettersi veramente in gioco. Mi piacerebbe che questa conversazione terminasse col racconto di quando hai concretamente e incondizionatamente accolto dei ragazzi siriani in fuga diretti in Germania. Non tutti riescono a passare da un ideale di sostegno umanitario alla sua reale messa in atto…

Le citazioni da “Conglomerati” (2009) di Andrea Zanzotto sono un omaggio alla lunga amicizia, direi quasi familiare, con il Maestro di Pieve di Soligo, che anche ora sopravvive in qualche affettuosa telefonata con la moglie Marisa.
Per quando mi domandi di raccontare: credo fosse un giorno di aprile. Li ho visti sbucare dal bosco. Tre teste ricce e scure. Camminavano in fila indiana esitanti e fragili. Ho capito subito e li ho aspettati. Mi hanno sorriso da lontano rasentando un ulivo. Gli ho detto: da dove venite? Mi hanno fatto cenno verso il sole: “Siria. Aleppo!”. Mi hanno chiesto da bere. Sono andato nei trulli, ho preso delle bottiglie di acqua. Ho rovistato negli stipi: c’era solo del pane raffermo e dei biscotti. Si sono seduti vicino al muretto a secco: hanno bevuto e morsicato il pane. Mi hanno domandato dove siamo? Gli ho preso una vecchia cartina geografica della Puglia, con il dito ho indicato il luogo dove eravamo. Hanno sorriso. Ho domandato: dove andate? – La mano di uno di loro ha fatto segno verso nord: “Germania. Stuttgart. Parenti”. Si era fatto tardi. Il sole era al tramonto. Li ho visti allontanarsi lungo la strada bianca, la stessa che facevo da bambino per andare in paese.

 


Featured Image by Mikołaj

 

 

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