Interview | Gullotta – Rimolo
Scrivere non è un atto fine a se stesso; non nasce dal nulla e non si esaurisce nel nulla. La scrittura parte da un vissuto che può essere sia personale, che generazionale. Parliamo di figli, famiglia e pregiudizi sulle donne che scrivono in una doppia intervista con Eleonora Rimolo, poetessa della mia generazione, direttrice della rivista online Atelier e delle Collane di Poesia Letture Meridiane ed Aeclanum per Delta2 Edizioni. Di recente, ha pubblicato la silloge di poesie Prossimo e remoto per Pequod.
FEDERICA G: Siamo nel 2022 ma talvolta ci sembra di trovare maggiore modernità e libertà nel passato più remoto, soprattutto nell’ambito delle relazioni, dei diritti civili e della famiglia che restano vittime di un’identità primitiva, istintiva, talvolta violenta, che lascia poco spazio alla varietà, alla scelta. Basti pensare alle convenzioni legate al matrimonio e al formare una famiglia o al fatto che per forza una persona bisex venga discriminata perché la società non accetta che non ci si schieri da una parte o dall’altra. Cosa ne pensi? E credi che nelle nuove generazioni come la nostra e quella dei 2000, ci sia una maggiore normalizzazione della diversità familiare?
ELEONORA R. Non penso che nel passato più remoto ci fossero più libertà in ambito relazionale, e in generale in nessun ambito: ritengo che i tempi attuali siano i più liberi che la storia dell’umanità abbia conosciuto (non in tutte le parti del mondo, chiaramente, dove comunque prima non c’erano premesse migliori). Oggi, infatti, la libertà individuale è stata eretta a valore supremo e incontrovertibile, spesso a discapito di quella altrui. Le nuove generazioni hanno a disposizione un grande vantaggio, dunque, che però va maneggiato con intelligenza, per evitare una deriva in senso opposto: sono del parere che non delineare i confini delle cose sia a lungo andare molto pericoloso. Fatta questa premessa, la percezione che ho della nostra società è piuttosto positiva: è la minoranza ad avere problemi con un certo tipo di scelta “non convenzionale” ma in generale oggi ciascuno di noi è consapevole che non ci sia nulla di strano nell’essere bisex o nell’avere una identità di genere non binaria. Per questa minoranza non penso che ci sia molto da fare: volerli costringere a cambiare idea a tutti i costi, può portare ad una crescita dell’intolleranza e della violenza. Il tempo li isolerà, e man mano saranno sempre di meno. Oppure resteranno una minoranza, ma in questo caso va accettato con serenità che il mondo non può essere perfetto e che il pensiero unico non esiste, né in Europa, né tantomeno fuori dall’Europa.
F.G. Entrambe siamo donne, potremmo avere figli, ma non ne abbiamo. Questa scelta, a volte purtroppo obbligata, quando non lo è, può essere sintomo di una personalità “selvatica” che va ricondotta alla normalità, oppure una donna o un uomo possono essere completi anche senza figli? E, soprattutto, sono considerati completi dalla società o indirettamente grava su di loro l’obbligo morale di riprodursi entro certi tempi?
E.R. Credo che oggi non ci sia alcun obbligo morale nel fare figli: il pensiero dominante al contrario sembra volerci ogni giorno convincere che avere una famiglia e/o un figlio sia qualcosa di profondamente sbagliato, di anacronistico, una sorta di pericolo che mina le basi della nostra suprema libertà individuale e della nostra crescita professionale. La scelta poi è personale e come tale va rispettata: chi decide di non avere figli sarà felice di aver fatto questa scelta. Mi preoccupa invece maggiormente chi deve rinunciare a questo desiderio poiché costretto a subire determinate dinamiche: incapacità di trovare un compagno o una compagna adeguati al ruolo di genitore (siamo una generazione poco incline ad assumersi responsabilità di questo tipo, che prevedono una rinuncia parziale ai propri spazi e alle proprie priorità a cui si guarda con estremo sospetto), difficoltà nel trovare una posizione lavorativa stabile che permetta l’arrivo di un nuovo componente in famiglia etc… Non ho una soluzione a questo, e io stessa sono in questo momento vittima di un desiderio castrato per i motivi succitati, quindi posso solo limitarmi ad esporre questa infelice condizione.
F.G. Quando si parla di poesia, esiste ancora oggi una distinzione fra poesia femminile e poesia maschile. Questa differenza in realtà non è influenzata dall’esterno ma si genera spontaneamente da un diverso atteggiamento che hanno alcune donne rispetto agli uomini nella scrittura; ad esempio molte poetesse si concentrano di più sulla propria interiorità, sul proprio mondo, utilizzano concetti più complessi e meno chiari o immediati, sono più consolatorie, prediligono schemi più tradizionali anche come forma. Tu condividi questo pensiero o la pensi diversamente? Ritieni che gli editori siano ancora legati a questa distinzione di genere e la incoraggino?
E.R. Io non credo sia opportuno fare distinzione tra la poesia femminile e quella maschile in un momento in cui si parla di fluidità in ogni ambito e anche i concetti stessi di maschile e femminile sono stati messi in discussione e destrutturati. Lo trovo inopportuno. In passato la poesia femminile poteva essere strumentale alla difesa di alcune libertà ancora negate alle donne, e quindi andare a toccare alcuni temi specifici al fine di costruire un discorso militante di conquista dell’uguaglianza. In questo momento la letteratura ci propone voci che indipendentemente dal sesso di appartenenza hanno la loro individualità, come è giusto che sia. Per quanto riguarda il discorso editoria si, alcuni editori sono ancora legati a questa distinzione, e non credo per cattiveria o per partito preso, quanto per una idea poco aggiornata delle idee di maggioranza che guidano la società e la vita reale.
F.G. La vita media sempre più lunga e di maggiore qualità ha fatto sì che tutti noi maturiamo molto più lentamente rispetto alle generazioni precedenti sia nell’ambito affettivo sia per quanto riguarda l’invecchiamento biologico e intellettivo, che è sempre più spostato in avanti. Perciò, prima di costruire eventualmente una nostra famiglia con prole, restiamo “figli” più a lungo. Ma se non abbiamo avuto una storia familiare serena o lineare, spesso siamo “figli di noi stessi”. Si tratta di paura di occuparsi dell’Altro, o di una visione più severa e senza compromessi di noi stessi e del mondo?
E.R. Si tratta di una stortura dovuta ad una serie di fattori, alcuni indipendenti da noi, altri fortemente dipendenti dalla nostra scelta individuale: fin da piccoli ci hanno insegnato che quando il giocattolo si rovina, basta sostituirlo, che possiamo sempre avere tutto nella versione più aggiornata possibile, senza il bisogno di fare il minimo sforzo, che possiamo fare i capricci come degli eterni bambini e perderci nel soddisfacimento superficiale di questi ultimi. Questo vale per gli oggetti tanto quanto per le persone, che di fatto sono diventate oggetti da vetrina (pensiamo solo alla modalità di utilizzo della piattaforma Tinder, per dirne una). Dunque, perché impegnarsi in una relazione a lungo termine e addirittura pensare di fare un figlio? Perché spendere dei soldi per iniziare anche soltanto a vivere da soli, quando possiamo usare i nostri per lo più miseri guadagni per comprare l’ultimo modello di cellulare e restare comodamente a casa con mamma e papà che ci preparano da mangiare e ci stirano i vestiti? Questo crea una dinamica perversa di dipendenza, anche e soprattutto quando siamo in presenza di contesti familiari problematici, che spesso non sappiamo gestire, perché ci vorrebbe uno sforzo enorme, e un supporto che non abbiamo. Siamo soli, e siamo prigionieri di questa solitudine pensando di essere liberi. Non riusciamo ad educarci all’amore perché non siamo stati amati e non vogliamo fare alcuno sforzo per metterci in discussione ed imparare ad amare da zero. Ma è questa la vera sfida, è questo diventare adulti.
Federica Gullotta, autrice non convenzionale, ha pubblicato nel 2016 la raccolta di poesie “La bestia viziata” nella Collanina Apolide di LietoColle curata da Mary B. Tolusso e nel 2019 una selezione di poesie, dal titolo “Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi”, nella raccolta Senza Titolo edita da EdB (Collana Poesia di Ricerca di Alberto Pellegatta), insieme a una silloge del portoghese Manuel de Freitas (tradotto da Roberto Maggiani).
ELEONORA R. Nell’epoca della famiglia nuclearizzata, dell’individualismo sfrenato, e della tendenza alla sostituzione immediata di tutto ciò che non ci soddisfa più, ha ancora senso parlare di famiglia? Potrebbe questo valore, considerato spesso come un limite dei propri personali orizzonti illimitati di possibilità, avere oggi ancora un ruolo in questa società? Potrebbe servire come argine di un narcisismo patologico imperante, che ci illude di essere eterni e infallibili e che ci diseduca al sacrificio e alla responsabilità?
FEDERICA G. Parlando di narcisismo patologico, credo che attualmente questo coinvolga e trascini con sé il concetto di famiglia stesso, che invece di essere argine diventa strumento di manipolazione narcisistica, degli altri e di sé stessi. Spesso il figlio o il partner vengono considerati come una propaggine del soggetto narcisista, come fossero una gamba o un braccio che dipendono dal suo cervello, che devono essere mostrati come fenomeni da circo più o meno gradevoli. La famiglia intesa come luogo d’amore e di conforto è già stata compromessa da diverse generazioni, anche se esistono situazioni familiari in cui prevalgono ancora affetto e comprensione reciproca. Attualmente i genitori hanno una paura matta, diciamolo, di sfigurare davanti a figli e nipoti. Se i figli usano Tik Tok o Instagram allora anche loro li devono usare; aprono un profilo, li emulano, con improbabili balletti e cambi di outfit. Credo che ci si possa divertire sui social a qualunque età, ma deve nascere da un desiderio genuino della persona stessa, non dal terrore di “essere lasciati indietro” e di non capire i propri figli. Ritengo che l’equilibrio di un individuo dovrebbe essere raggiunto o perlomeno provarci prima di formare una famiglia, e spesso questo è difficile nella società attuale perché tutte le spinte esogene distruttive che riceviamo ci destabilizzano (anche concretamente, vedi la difficoltà a trovare lavoro, o un lavoro consono e giustamente retribuito).
E.R. In questa stessa direzione si muove oggi il dibattito sulla genitorialità: molte donne scelgono di non avere figli, temendo che questi possano rappresentare un qualche tipo di ostacolo alla propria crescita professionale o personale. È vero che avere figli non è un obbligo, e che ciascuno di noi può trovare la propria dimensione di felicità e di completezza senza essere madre, ma cosa ne pensi della retorica con cui siamo cresciute, la quale ci spinge a pensare ossessivamente alla carriera e all’indipendenza, suggerendo indirettamente che è meglio evitare di essere mogli e madri finché possibile?
F.G. Vista anche la mia personale esperienza, ho sempre pensato che dovrebbero fare figli solo coloro che ne sono estremamente convinti e, soprattutto, chi ha intenzione di trattare il figlio come un essere capace di intendere e di volere. Mi spiego meglio: se l’intenzione originaria del genitore è quella di mistificare la realtà agli occhi del figlio fin dalla nascita, la direzione è sbagliata. Se il genitore ha intenzione di sgridare il figlio con vaghe minacce senza spiegare perché è sbagliato fare una cosa ed è giusto farne un’altra, è sempre una direzione errata. Poi, per carità, è giusto riprodursi, l’importante è essere consapevoli che fare un figlio è una cosa “spaventosa”, non nel senso di brutta, ma di “enorme, complessa”; non si possono fare figli solo perché è una “tappa” della propria vita o perché la società lo richiede implicitamente. Io sono cresciuta con una madre letteralmente ossessionata dal lavoro e dalla carriera, che ha sacrificato tutto per questa, tanto che io da piccola ero talmente gelosa della sua auto da danneggiarla e quando presi la patente a 18 anni venni bocciata 3 volte, proprio per questo odio che mi portavo ancora dentro. Il risultato? Mia madre ha perso la sua famiglia e al lavoro ha fatto carriera ma non quella che sperava. Questo per dire che le ossessioni portano sempre a perdere lucidità e a non centrare l’obiettivo. Bisogna sempre restare lucidi.
E.R. Mentre la società mette continuamente in discussione il concetto di genere, appiattendo le differenze tra uomo e donna e promuovendo la fluidità in ogni campo, la letteratura difende e sottolinea la divergenza di temi e stili della letteratura al femminile. Come si risolve dal tuo punto di vista questa contraddizione, forse non solo apparente?
F.G. Ultimamente si parla del concetto di fluidità di genere come se fosse qualcosa di nuovo, di inaspettato, a cui nessuno aveva mai pensato prima. In realtà la storia stessa ci dimostra che la fluidità di genere è sempre esistita e non è mai esistita nel senso che è di quelle cose che tutti sappiamo bene che esistono, perché sono dentro di noi, che lo vogliamo o no, ma poi si fa finta che non esistano. O meglio, parlando della situazione attuale, si delimita ad un concetto teorico astratto da condividere o non condividere, su cui essere più o meno tolleranti, una teoria scientifica che non ci appartiene. Detto ciò, se devo proprio essere sincera, in questo caso preferisco che sia tollerata ipocritamente piuttosto che negata, per quanto io sia decisamente contraria alle ipocrisie. Nel mondo letterario la differenza di genere è forse più evidente che nella vita reale, specialmente in Italia (nei paesi anglosassoni ad esempio c’è più vicinanza tra scrittura maschile e femminile); questo non credo sia dovuto a questioni genetiche e fisiche ma culturali, provocate dalla tradizione che ci precede, che ci pesa addosso, dai nuovi poeti e nuove poetesse e anche poeti e poetesse di generazioni precedenti che trovano terreno fertile (e più possibilità di pubblicazione) nell’accentuare i tratti stilistici e contenutistici dell’uno o dell’altro sesso. Io stessa ho incontrato difficoltà con un editore a cui piacevano le mie poesie, che mi avrebbe pubblicato solo se avessi trascritto i miei versi dal neutro al femminile, usando uno stile più arcaico, meno diretto e più consono al mio genere. Quindi, per quanto riguarda le poetesse: un sottofondo consolatorio più o meno esplicito, sofferenze, legami di coppia, familiari o affettivi rappresentati in maniera piuttosto didascalica, elenchi di azioni quotidiane, parti del corpo o della natura o elementi urbani spesso citati senza criterio e senza senso, una minore lucidità. A onor del vero, bisogna dire che anche molti poeti uomini hanno iniziato a scrivere in questo modo, forse sperando di essere considerati più sensibili, e perciò più pubblicabili, o più comprensibili ad un vasto pubblico.
E.R. Rispetto alle precedenti generazioni, noi nati negli anni ’90 siamo figli di una crisi irreversibile che ci costringe ad ottenere l’indipendenza economica e sociale con notevole ritardo: molti dei nostri coetanei sono ancora dipendenti dai propri genitori e spesso alla crisi di fatto si aggiunge l’indolenza e l’incapacità di sacrificarsi per rendersi autonomi. D’altro canto, anche chi apparentemente sembra più autonomo, spesso è vittima di dinamiche familiari tossiche non risolte che sottraggono stabilità e volontà. Che cosa è davvero cambiato? Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
F.G. Io sono l’esempio di una persona della mia generazione che tenta di disintossicarsi da una vita, pur avendo iniziato a lavorare da giovanissima, pur avendo studiato, pur essendo laureata. A volte parlare di crisi, per quanto realistica, visti i lavori e gli stipendi a cui ci dobbiamo adattare per essere indipendenti, può diventare una scusa, un appiglio per non cadere nel precipizio dell’oggettività. Quello che vedo invece, in tutte le generazioni ma specialmente dagli anni ‘60 in poi, è che le persone tendono a prendere in giro se stesse, ad autoconvincersi di qualcosa. Questo significa rimanere uguali a sé stessi, non progredire. È un istinto del tutto naturale che però dovremmo tentare di arginare di tanto in tanto. Anche adesso, come nel passato, pare non ci sia scampo al susseguirsi di tappe prestabilite nel corso di un’esistenza, pare che tutto sia determinato come la sentenza di un giudice che ci ordina di studiare, sposarci, comprare casa, fare figli, crescere nipoti, morire. È scandito nella mente dei nostri creatori, da un’autorità sovrumana. Tolto il fatto che questi creatori siamo noi che ci ripetiamo nei secoli senza avere il coraggio di una sequenza binaria sbagliata.
Photo by Olga Tutunaru