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Interview | Mauro Ferrari

Recentemente ho letto Editoria senza editori di André Schiffrin, nelle sue pagine si raccontano le trasformazioni di un’editoria vissuta in prima persona, dalla genesi alla sua caduta, fra sogni, etica e ingenuità, fra cinismo, difficoltà e fallimenti.  È un libro che ti è capitato di leggere? Personalmente, leggendolo sono sorti inevitabili parallelismi tra la situazione statunitense denunciata allora da Schiffrin, e la situazione italiana degli ultimi anni. Anche qui, fino a qualche decennio fa, generalmente un editore rappresentava e garantiva col suo nome un determinato standard. I libri pubblicati erano frutto di una scelta consapevole del proprio genere, del proprio percorso, delle proprie idee e ovviamente di chi sarebbe stato il proprio lettore. La sensazione odierna sembra più caotica. Buona parte degli editori si somiglia sempre più. Sotto lo stesso catalogo, e talvolta nella stessa collana, vengono affiancati autori di ogni sorta e di qualità obiettivamente altalenante. Questo destabilizza e disorienta sia il lettore, che gli stessi autori. C’è oggi, anche secondo te, un serio problema di identità delle case editrici?

Non ho letto il libro, ma provo a rispondere sulla base delle mie conoscenze e dell’esperienza maturata sul campo, sia come direttore che come critico e poeta. L’idea romantica dell’editoria storica non esiste più, fagocitata da un lato dall’aspetto economico dei giganti, sempre più elefantiaci e sempre più impantanati dal punto di vista economico e culturale, e dall’altro da una realtà in cui i lettori (potenzialmente sempre di più) diventano in realtà sempre meno e sempre più attratti da prodotti e generi usa-e-getta. Questo fa sì che tutti (grandi e piccoli) siano dominati più o meno da una stessa esigenza economica, come provano da un lato le aggregazioni (sempre più ampie e confuse), e dall’altro la vita sempre più effimera di tante case editrici. Specie di quelle che non si adattano al mainstream e/o di bassa qualità, come gli instant book degli pseudo-famosi (divette, esperti da bar ecc.).

 

 

Statisticamente in Italia i lettori sono una piccola percentuale, e i lettori “forti” ancor meno. Quel che più si legge sono romanzi o, meglio, pochi titoli di bestsellers. Saggistica, filosofia e poesia occupano uno spazio marginale. Le librerie fisiche sono sempre più in sofferenza e i colossi delle vendite online hanno raggiunto quasi il monopolio. In questo panorama, quali sono e che importanza assumono i rapporti tra un editore specializzato e le librerie fisiche fiduciarie?

Sono essenziali: oggi non sono molti i librai che ad esempio fanno una minima ricerca quando un cliente chiede un libro che non è al momento disponibile in libreria. “Editore introvabile”, rispondono spesso, oppure “libro esaurito”: è una realtà che conosciamo bene, anche se ad esempio puntoacapo spedisce in giornata e a proprie spese! Per fortuna esistono ancora librai veri, che non necessariamente leggono tutto ma sono informati, attrezzati ad esempio per effettuare eventi. I quali, sia detto in chiaro, se ben gestiti sono una fonte di guadagno per nulla disprezzabile, fra la cifra che spesso viene chiesta all’editore per la sala e le vendite.

 

 

Se da un lato i lettori diminuiscono, dall’altro le pubblicazioni aumentano. Cosa rappresenta questo paradosso?

La realtà italiana è di 70.000 titoli all’anno. Erano 15.000 nel 1979, 56.000 nel 1998. Ma i lettori sono sempre meno, e soprattutto aumentano coloro che non leggono nulla, mai. Probabilmente 35 milioni. I motivi sono diversi: i libri hanno una shelf-life sempre più breve, anche per un costo di produzione che (almeno per le major) è irrisorio, e quindi è più facile trasformarli in merce usa-e-getta, spinta da un apparato pubblicitario che fa leva sull’istantaneo, sulla cronaca, sul sensazionalistico. Ovvio che chi compra questi libri siano lettori deboli, il che garantisce a diversi titoli di arrivare a vendite non disprezzabili, ma penalizzando tutto il resto. E non penso tanto o solo alla narrativa (che ha numeri ben maggiori ma solo per pochi titoli), ma anche alla critica, alla saggistica, e infine alla poesia. Che è un caso complesso, se è vero che una grande quota di quei 70.000 titoli sono proprio di poesia: libri che legge solo una minima quota di lettori forti, in genere poeti; parliamo di 1.000, 2.000 o 3.000 lettori, il che è una concausa (non la sola) della crisi (solo editoriale) del genere che più e meglio rappresenta la nostra cultura nazionale. I migliori titoli delle major in libreria vendono alcune centinaia di copie, checché se ne dica. E un buon editore di settore – non necessariamente piccolo, come noi – può competere, almeno qui, ad armi pari o quasi.


La poesia, si sa, vende poco. Oggi come ieri, diversi autori, soprattutto di poesia, ricorrono all’auto-pubblicazione presso stamperie book on demand, o si rivolgono a editori a pagamento. Sono pochi gli editori che non chiedono contributi ai loro autori. Questo può compromettere la professionalità di un autore?

Assolutamente no. Mi spiego: in Italia, e non ne siamo per nulla felici, le vendite non coprono quasi mai i costi, e il calcolo è presto fatto. Non ci sono soluzioni magiche per risolvere il problema, come hanno scoperto a proprie spese (è proprio il caso di dirlo) tanti editori che hanno provato. Del resto, quanti libri pubblicano le major? Mettendo insieme tutti i marchi, meno di dieci titoli l’anno, forse cinque, a fronte di un 200 titoli che meritano la pubblicazione perché, a un qualche livello, possono definirsi di poesia vera. Poi il tempo ci dirà cosa resta. Attenzione: 200 titoli su 20-30.000. È questa quota eccedente che rappresenta il vanity publishing, cioè paga-e-pubblica; cioè: il tuo libro non vale, mi farò prendere in giro da un vero lettore di poesia pubblicando le tue cose, ma tu paga e il libro te lo faccio. Diciamo le cose come stanno. L’editoria a pagamento è questa, ed è cosa ben diversa da una onesta collaborazione anche economica fra un editore vero e uno scrittore vero (“professionista”, per riprendere la tua definizione) per dare una chance concreta a un libro che la merita! Anche perché un editore vero fa scegliere i libri da specialisti; li cura e impagina professionalmente, fa un mailing promozionale di decine di copie, organizza eventi (noi siano oltre i 120 all’anno gestiti direttamente), gestisce con puntualità un sito professionale, facebook e altri social media (anche se questo non incide quanto auspicabile sulle vendite), partecipa alle Fiere e tanto altro… Tutte cose che costano, molto più della pura stampa.

 


La poesia contemporanea spesso sembra sopravvivere di autocertificazioni e pacche sulle spalle fra chi frequenta gli stessi gruppi d’appartenenza. Quanto può  incidere la vicinanza di un autore a determinate personalità del settore sul giudizio del suo lavoro?

Nel breve termine, ahinoi, molto; già sui tempi medi, nulla. E non tanto perché ci sia davvero una critica imparziale (non c’è mai stata), ma perché i pochi veri lettori di poesia (e i poeti) sono molto competenti. E anche se sono pronti spesso a fare di tutto per una nota dal critico di prestigio di turno, o a lodare il poeta “che ha pubblicato con X”, alla fine sanno che il tempo è (spesso, non sempre!) galantuomo. Piuttosto, sarebbe bene che si tornasse al tempo in cui le sole autorità riconosciute dai poeti erano… i poeti stessi e non cattedratici che fanno corsi sul Trecento e poi pontificano sulla fine della poesia.

 


Anche l’organo della critica letteraria non è esente da simpatie, sfumando spesso nella promozione. Esiste ancora una critica disinteressata, militante e costruttiva?

Credo di avere già risposto. Forse sì, ma è la critica esercitata dai poeti stessi, che sono i migliori critici, e intendono la poesia come un organismo vivo. Al netto, ripeto, da piaggerie di varia natura. Ma siamo tutti umani…


Al di là del gusto personale, qual è il metro di puntoacapo per riconoscere, fra tutti i materiali inediti che arrivano in redazione, ciò che è poesia da ciò che non lo è?

La poesia è per definizione indefinibile, e c’è perfino una letteratura al riguardo. Una amico poeta diceva: “Il Bello è difficile da vedere, ma il Brutto si vede eccome”. Ecco, questo è il primo criterio che per qualunque lettore poco più che mediocre permette di fare una cernita ristretta. Ma, poiché nessuno è esente da (molti) errori, è indispensabile che un editore possa contare su un ampio e qualificato gruppo di lettura. Dico di più: un gruppo eterogeneo quanto a formazione e gusti: non vogliamo ghettizzarci all’interno di un recinto stilistico, tematico, ideologico: il bello della poesia è scoprire il valore di un poeta diverso da te, diverso da quello che fino a quel momento avresti definito poesia. Anzi, credo che sia la marca del vero poeta originario, e spesso del genio. Poi, è chiaro che assegnando a ogni collana uno o più direttori, questi hanno la facoltà di dare alle scelte un tocco personale. Ma senza poetiche a priori!

 

 

Si consta che sempre più autori contemporanei affollano web e social con i loro scritti alla ricerca di una visibilità (non ancora ritrovata) e di sudatissimi (a volte supplicati) like in più. A tuo parere questa nuova vetrina, quanto sta influendo sulla scrittura, sul linguaggio e sulla ricerca personale di ogni singolo autore?

Se consideriamo i poeti che vanno alla ricerca dei like, posso dire che non sono veri poeti. Certo, un buon poeta sa promuoversi anche tramite i social media, anzi questo fa ormai parte di una professionalità imprescindibile. Però un conto è cercare l’approvazione dell’esperto (quello che secondo Wilde non applaude ma approva), un altro è scrivere per ottenere approvazione, o peggio più like. Il rischio è lo stesso della politica dei sondaggi: oggi l’indirizzo politico è dettato dai sondaggi, il che ha ingessato de tutto la vita politica del Paese; assistiamo a sondaggi settimanali sul gradimento dei leader, proprio come tanti simil-poeti contano i like e creano su questa base una propria poetica (che poi non è tale, per nulla). La poesia (l’arte) deve inventare e guidare, non seguire.

 

Un’esibizione così insistita può deprezzare la poesia e la percezione che si ha di essa?

Ma certo. Vero, il web ha reso accessibile tanta buona poesia (e tanta buona critica) ma anche tanto ciarpame. E non è facile distinguere. In questo mare magnum, senza una guida critica, come può orizzontarsi un lettore che vuole avvicinarsi alla poesia?

 

Ma questo nuovo luogo della poesia è davvero tale? Quanto è reale, non ultimo nelle vendite, questo pubblico virtuale?

Una recensione, meno che mai su web, non muove le vendite di un millimetro, almeno per la poesia. ma il punto non è quello: ho già sottolineato i pro e i contro: penso che siano in sostanziale equilibrio. La poesia ha bisogno di calma, tempo, silenzio. Come le idee.

 


Qual è il pubblico della poesia?

Al 90% è composto da poeti. Tralascerei gli studenti, che leggono poesia solo se costretti, eccetto… quelli che diventeranno poeti. Pochissimi insegnanti – e questa è una tragedia. E ancor meno lettori puri. Totale? Da 1.000 a 3.000 persone, come ho detto. Ma (facciamo un gioco) se ciascuno di loro acquistasse un numero minimo di libri (diciamo 5, per un totale di 70 euro l’anno) avremmo forse un totale di 20.000 copie vendute: e allora un bel libro venderebbe migliaia di copie, uno decente centinaia, uno pessimo… zero. Gli editori avrebbero ogni interesse a pubblicare buoni libri, e nessuno confonderebbe il vanity publishing con la poesia.

 

 

Giulio Ferroni, nel suo Scritture a perdere, definisce questo momento storico-culturale come “il tempo dell’eccesso”, produttore infaticabile di “scarti e rifiuti”. Non sfugge a questo quadro una produzione libraria sempre più smodata, che costipa l’universo mentale incrementando il “vano” e il “già dato”. In risposta a ciò, Ferroni fa appello a una “necessaria ecologia del libro”, individuando quattro termini chiave: “energia”, “passione”, “ricerca dell’essenziale”, e un’ultima parola a mio parere cruciale: questa parola è “responsabilità”. La casa editrice puntoacapo cosa ne pensa dell’analisi di Ferroni? 

Siamo del tutto d’accordo, come si evince da quanto detto sopra, anche se poi non è facile capire come operare: noi facciamo una selezione feroce delle proposte (e potremmo pubblicare 200 titoli di poesia all’anno, invece dei 30 che facciamo) e cerchiamo di dare a ogni titolo la massima visibilità qualificata. Con competenza, “energia” e “passione”, anche se non è facile, nel rumore di fondo in cui siamo immersi. “Parla poco se devi /scrivi se davvero preme”, se posso citarmi.

 

 

In che modo oggi un editore può ritagliarsi il suo spazio, ottenendo i suoi utili come è ovvio, ma senza dover rinunciare a un senso di responsabilità intellettuale e culturale che questo delicatissimo e importantissimo lavoro dovrebbe richiedere?

Facendo scelte oneste senza scendere a compromessi anche quando sembrano la via più facile o inevitabile. Se si è coerenti, tutti quelli in buona fede lo percepiranno e si metterà in moto un meccanismo virtuoso che porterà i migliori autori, il che vuol dire riscontri (vendite, ma non solo). Questo è ciò che volevamo fare quando siamo nati, dodici anni fa, e credo che da allora – fatti salvi gli errori, da cui naturalmente non siamo esenti – siamo riusciti a restare fedeli a questo principio.


Dario Talarico intervista Mauro Ferrari | Direttore Editoriale per Puntoacapo Editrice

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