Milan
08 May, Wednesday
21° C
TOP

Montorfano – De Falco | Dialogo sulla casa

M.M.: Ci sono punti di tangenza e di comunione tra due oggetti come la casaintesa quale spazio fisicoe l’immagine. Il primo è il loro rapporto di dipendenza e di sovranità con la luce e con il buio: una casa è l’insieme di spazi che cambiano vita e destinazione in base all’incidenza di questi due elementi così come l’immagine è, attraverso la luce, puro movimento di estensione (per citare Périnal) e collasso quando è invasa dal nero.

E c’è anche un succedersi di dentro e di fuori in questi due oggetti: la prima, con i suoi spazi esterni circoscritti dai muri o lasciati in balia del vento, le sue aperture sulla vita circostante e le sue coperture, le protezioni per salvaguardare l’intimo dei propri padroni; similare l’immagine, che mantiene un riserbo per il proprio interno, concedendo apparentemente solo la propria evidenza, il supporto di un significato. Nel suo volume di emozioni, di descrizioni, di sfumature e particolari, l’immagine mostra il proprio segreto con cautela, un’intimità sempre sul punto di chiudersi, un interno socchiuso che sembra giacere tra l’impresa del concedersi e il mistero della profondità. Casa e immagine sembrano oggetti che fanno massa e si assentano. Oggetti totali e attraversati da una cesura, uno scollamento.

 

P.De F.: Ogni tanto mi capita di andare a trovare Marilyn Monroe. Io abito nei miei film, diceva. Allora so dove trovarla…Ogni tanto la vado a trovare e lei mi parla con gli occhi, stesa su un letto, con la luce che entra dalla finestra vicina. La casa non esiste. In fondo neanche lei, credo. Chi può dire che quella lì, stesa sul letto, sia proprio Marilyn? Guardo il letto e non mi ricordo se è il mio o il suo…La casa ci inghiotte, ci mangia, ci porta via… Ma dove?  La casa esiste? Forse le costruiamo o le troviamo, le case e le immagini, per fuggire. La loro staticità coincide con una strana tensione contraria. Io vivo molto in casa e per me, credo, la casa è l’immagine del cuore, del mio, dove ho raccolto tante cose che ora qui, intorno a me, sembrano dei relitti. È piena di crepe, la mia casa, di vene arate più volte. A volte i relitti sembrano consumati, altre sento che avrebbero voglia di uscire, di tornare da dove sono venuti o prendere nuove stradeNella casa, come nel cuore, tutto sembra provenire, abitare una specie di passato presente. Scorre il tempo assente del cuore. Diverso da quello della mente. A volte guardo la mia casa, cerco un punto preciso, dove i miei occhi possono coincidere con un punto interno, un punto “unico” da dove posso vederla tutta, intera. Oppure cerco di introiettare lo sguardo di qualcuno che ci entra per la prima volta. L’aver fatto dei film credo mi aiuti in questo tentativo di sintesi. Un film a volte diventa una sola inquadratura, una sola immagine e in questa riduzione si arricchisce. Perché dove le immagini finiscono e comincia l’immaginazione, qualcosa si apre. Hanno paragonato in tanti il cinema al sogno, ma il suo sogno comincia quando il film è finito, si rompe, arresta il suo corso. Allora comincia il sogno dell’immagine che è fatto di una materia strana, metà realtà e metà cinema. L’immagine sogna e lo fa, credo, non tanto perché ha una storia ma perché vuole avere un futuro. L’immagine non vuole morire. Come la casa le costruiamo perché rappresentano degli antidoti alla morte.

 

M.M.: Forse, il punto cardine dell’immagine e della casa, o il loro interstizio, questo spazio minimo che li divide e li polarizza tra l’indifferenza e l’attenzione reciproca, è il tempo. La durata delle cose fabbricate o il tempo occupato dagli oggetti che si sollevano e brillano davanti ai nostri occhi, che arrivano a contenerci o a raccontarci, a strapparci o a ricucirciIl tempo dell’immagine che contenendo il mondo vi si allunga “per avere un futuro” come dici tu e per non essere un sintomo o un semplice feticcio del mondo che l’ha prodotta. E il tempo della casa con i suoi amori e le sue rabbie, le sue rivoluzioni e i suoi slanci, i propri desideri e le proprie lacerazioni, perché, come scrisse Eliot: Una dopo l’altra/le case sorgono cadono crollano vengono/ Ampliate / Demolite distrutte restaurate o al loro posto / C’è un campo aperto o uno stabilimento o / Una via di circonvallazione. Vecchia pietra / Per costruzioni nuove vecchio legname/ Per nuovi fuochi, vecchi fuochi/ Per cenere e cenere/ Per terra che è/ carne e pelo / Escrementi, ossa/ (…)”.

 

 

P. De F.: Il mondo esiste? Dove finisce il mondo? Forse è questo che cerchiamo della casa, la sua fine. Forse è questo che cerchiamo del mondo. La nostra fine. Non c’è altro che più ci seduca e ci consoli. Del resto chi potrebbe sopportare tutto questo se non sapendo che c’è la morte? Ma dov’è la morte? Ogni volta che faccio cinema faccio la lotta con il mondo. Con il suo resistere. Col mio resistere. E mi sembra di resistere con l’abbandono, vento nel vento. Non si tratta di raccontare storie. O di ascoltarle. Le storie le sappiamo. Anche quando pensiamo di non conoscerle. Ciò che c’incanta è il gioco che il mondo fa col tempo. Il cinema non è che questo, e anche la fotografia. Non è un fatto marginale, il gioco. Né una consolazione. Il gioco è l’abbandono. In fondo ho fatto teatro e cinema (anche senza farli), per tenere il timone dell’abbandono.  Ora mi piace trarre foto dal movimento; succhiando sangue al mondo, forse posso divertirmi a raccogliere la palla che va fuori dal campo. Da piccolo giocavo molto a pallone (anche ora) e quando si perdeva il pallone, perché qualcuno lo lanciava lontano, mi sembrava di vivere un momento magico. Mi piaceva, m’incantava quella sospensione, posso perfino dire che sentivo una strana gioia in quegli attimi di attesa (e la sento ancora oggi). Niente è completo di per sé; può diventare completo solo attraverso ciò che gli manca. E la mancanza non si può definire, dunque è infinita, esiste nell’infinita possibilità; la mancanza ci fa tornare al movimento. Fuori dall’inquadratura, dall’immagine, anche quando il pallone è fermo, il gioco continua. Ora nei campi ci sono più reti, prima noi giocavamo nei campetti di terra, sull’asfalto di periferia, nei cortili silenziosi e il pallone schizzava via lontano. Si faceva riprendere piano, con piccole avventure: qualcuno s’inoltrava e poi tornava dopo un po’ con la faccia più vissutaLe reti erano solo i richiami lontani delle madri al tramonto.

L’altra sera invece il pallone si è impigliato nella rete che assedia il campo tirato a lucido per l’erba sintetica. Sono andato a prenderlo e mi è sembrato che non volesse tornare in campo. Mi è sembrato che ci guardasse, a noi giocatori smaniosi di riprendere, e ridesse, sapendo il suo immenso potere. Levate il pallone, l’immagine in movimento agli uomini, e il mondo finirà. Ma la fine serve, mi sono detto,… perché poi produce il ritorno. L’immagine e la casa sono il pallone che torna, alla fine, dopo averci preoccupato e un po’ ingannato. Giocheremo ancora e sarà sempre bello. Lo faremo dovunque, anche in casa. Non può finire così il gioco. Lui si diverte più di noi e sa come prenderci. La tenerezza sta in questa uguaglianza. Tra gioco e noi, tra pallone e campo. Noi corriamo e il campo corre… noi manchiamo la palla e il campo manca…Noi torniamo e il campo cresce. Lo spazio non è un contenitore. Lo spazio gioca. È un gioco. Come il tempo suo amico che s’arresta e schizza continuamente. C’è un posto in Puglia dove chiamano la fotografia: la tale e quale. Tu vivresti nella tale o nella quale?

 

M.M.: Se la tale è la datità del reale, dove ogni cosa si somiglia in un parterre di descrizioni oggettive e “la quale è sfrangersi in un abisso analogico, risonante nella indefinibilità del mondo e nella sua connotazione, allora è una scelta impossibile e falsa il viverci o la sua negazione perché siamo già, totalmente, in questo insieme che si sfalda e si ricompone, che gioca su più tavoli e che impone al giocatore una felicità perennemente sull’orlo della propria fine. La casa, l’immagine, sono il gioco e la fine del gioco. Il ritorno e ancora la sua fine. Il gioco è spazio perché lo spazio ha un limite che permette una felicità e una rivoluzione. La casa, il reale e l’abisso. E l’immagine la trama e l’ordito di un “vivere insieme” che non può esistere se non è votato a un ricominciare, a un ritorno, a tornare su se stessi e sui propri passi, a ripetere l’inauguralità. Così nello stesso istante, come l’immagine fugge da se stessa, come si fugge da casa, come una casa viene edificata e poi abbattuta,  il vivere insiemeè reale nel momento in cui ci fa tremare nella nostra solitudine e confessare, dichiarare la nostra disperazione nel condividere questa scelta. Tutto è un atto di abbandono.

 


Video “Wait” music and video by Paolo De Falco from the album: Like water in the bucket |  www.paolodefalco.it

Post a Comment