Melissano | Autodiffamazione
Esistono molti luoghi dove nascondersi. Da piccoli sotto un tavolo o sotto le lenzuola. Cresciamo e siamo in un teatro, al buio, nascosti dalla nostra vita.
Scorre il sipario e il drappo si ammanta sul corpo del pubblico. Tutti innocenti. Tutti spettatori.
Con Lea Barletti e Werner Waas non funziona così. Loro entrano in scena e sono nudi. Nudi e innocenti. Ti fissano, ti scrutano. Senza giudizio. Placidi, consapevoli, bellissimi. Ed è a quel punto che sorge la domanda. Vuoi vedere che il colpevole sono io.
Il diaframma si schiude e la meccanica dei loro corpi svela la parola, la rivela. Potente. “Sono venuto al mondo”. Inizia così lo spettacolo Autodiffamazione, dal testo del drammaturgo austriaco Peter Handke.
“Sono venuto al mondo”, afferma Werner, e Lea prosegue, “Io sono divenuta”. Le parole sono scandite piano. Io. Sono. Divenuta. Ciascuna parola scava una voragine da cui sciamano stormi di filosofemi. Ecco l’Io cartesiano. Ego sum, ego existo. Per il filosofo francese quel pronome bastava ad enunciare la consistenza del suo Esserci. Nessuno sbaglio, c’è un Io. Cos’altro serve? Il pensiero. Io sono “una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente”. A questa affermazione seguiranno infinite dispute fra empiristi inglesi, idealisti tedeschi, metafisici ed esistenzialisti. Possiamo dire che plasma letteralmente l’intera filosofia moderna. Il secondo filosofema, Sono, lo possiamo accogliere perché è pronunciato da Lea (il testo è recitato in doppia lingua, in italiano e in tedesco, e in simultanea si legge la rispettiva traduzione sul fondo nero). In tedesco potrebbe non esserci l’Essere in questa frase, a causa dell’uso del Perfekt che traduce direttamente ich wurde, io divenni. Ma pronunciato dall’attrice italiana, quel “sono” smette di essere un ausiliare e si afferma con tutta la potenza e la forza che da Parmenide a Heidegger questo concetto contiene. Per il filosofo tedesco, l’Essere diventa Dasein, cioè l’Esserci, o meglio la comparsa e la scomparsa di ciò che esiste nel mondo. Tale presenza diventa trasformazione e l’Io individuale di Cartesio si sgretola. Il Dasein ingloba il singolo Io e lo amalgama in una ballata comune. Interno ed esterno si animano e si condizionano a vicenda.
Divenire. Con questa parola l’incipit di una pièce ha trattato duemilacinquecento anni di filosofia occidentale. L’Essere propone una immobilità, il divenire è il suo opposto. Un concetto che parte da Eraclito e si fa protagonista soprattutto nei dibattiti filosofici del ‘900. Bergson in Francia e Severino in Italia. Si afferma il principio di non contraddizione del pensiero parmenideo, e all’Essere e al non Essere, si sovrappone la formula del divenire.
Lo spettacolo prosegue con gli attori che affermano di avere visto, catalogato, indicato, memorizzato, nominato, immaginato, imparato delle cose e le loro differenze. Un Organon aristotelico che analizza gli enti del reale distinguendoli dai propri contrari. Origine del principio secondo il quale è “impossibile che la stessa cosa convenga e non convenga alla stessa cosa e sotto il medesimo rispetto”. Sintesi imprescindibile di ogni logica. Il pensiero presocratico è andato in tilt, la formula dei dissoi logoi di orientamento sofista langue ormai nell’irrefrenabile bisogno di inclusione ed esclusione del diverso e dell’uguale.
L’ordine è un virus che ha alterato il corredo genetico dell’uomo. Si impara a ragionare ed il passaggio successivo implica una matrice ancora più virulenta, più violenta. Werner sostiene che ha imparato le regole e le eccezioni alle regole, è diventato obbligato a fare o a non fare. In queste affermazioni il Leviatano ha raggiunto l’acme. Tutto il percorso di umanizzazione e civilizzazione passa sotto la stretta sorveglianza del controllo sociale.
“Sono uscito dallo stato naturale e sono diventato” ci dice Werner. Una lunga pausa e prosegue “sono diventato innaturale”. Continua affermando di essere diventato prima responsabile di sé stesso, e di conseguenza corresponsabile della vita degli altri. Il controllo diventa un meccanismo collettivo. La società assolutizza ogni ambito dell’esistenza. Lo stato naturale è il solo nemico da eradicare, sformare, annichilire. Hobbes trasforma tale processo in una scienza esatta. Michel Foucault tre secoli più tardi osserva e commenta i risultati. La società ha avvelenato tutte le condotte naturali, arrivando a gestire gli stessi flussi dei desideri umani. Il mondo sociale diventa un manuale di tecniche di addomesticamento della natura umana.
Lo spettacolo attraversa diversi livelli di linguaggio. Si può dire che alterni soprattutto due passaggi continui, uno di natura ontologica e l’altro più incline alla sociologia e alla psicologia, un’oscillazione fra la filosofia teoretica e la filosofia morale. La prima battuta “io sono venuto al mondo” rientra nel palleggio ontologico. Più avanti Werner dice, “sono arrivato ad una mia storia, ho scoperto che io non sono tu”, indicando Lea, che nella vita privata è anche la compagna dell’attore tedesco. Da piccolo mi chiedevo spesso perché io sono io e perché non sono il mio compagno di banco. Un tema che Peter Handke propone anche nel film “Il cielo sopra Berlino” sceneggiato insieme al regista Wim Wenders.
Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non son lì?
Sospetto che l’autore nella tautologia “bambino bambino” intenda la lucida visione delle cose, scevra dai condizionamenti dell’adultità. Il bambino bambino è la coscienza, eterna manifestazione di un bisogno naturale ed inesprimibile. Violato nel crescere da regole e principi di ogni genere. Quella domanda potrebbe non sopirsi in età adulta, sebbene necessiti di ancora più tempo per crescere, evolvere e attraversare le notti buie dell’anima e procedere nelle dimore del Castello immaginario della carmelitana Teresa.
Gli attori a un certo punto si vestono. Ballano. Ridono e scherzano. Il ritmo si fa incalzante e prepara ad una delle battute più forti dello spettacolo. Si parla di violazione delle regole. Lea afferma, “Quali regole ho violato dell’Amore” e poco più avanti dice, “a cosa mi sono astenuta, ho lasciato fare”. Fra le accuse rivolte alla vita, al mondo, alla società e a Dio, il rimprovero all’amore violato e disatteso è l’infamia più corrosiva che un uomo può infliggere a sé stesso. Non a caso, una delle ultime battute della pièce è pronunciata da Werner, e dice “io non ho mantenuto quello che avrei dovuto mantenere”. Si parla di molte cose, ma forse si parla anche di quel treno che non abbiamo preso e di quel sentimento che abbiamo seppellito nel cuore. Quali regole ho violato dell’amore. Questo è il vero j’accuse che posso infliggere a me stesso. “Perché sono qui, e perché non son lì”. Perché sono vestito, seduto e inerte, anziché Essere nudo, in piedi e innamorato.
Foto di Noah Buscher