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Russo | La prossima casa

Ho abitato molte case nella mia vita. Di alcune ricordo il divano verde, di altre il rumore del treno, i libri che ho letto, l’umido alle pareti o i quadri fatti di gesso e legno, cicche di sigarette.
Ricordo i pomeriggi passati con la mia prima fidanzata in estate nella casa in campagna. L’anno scorso mio padre ha deciso di venderla, era ormai troppa la fatica della cura, il peso delle imposte, troppo grande rispetto ai fichidindia e all’olio del raccolto. Eppure mi ricordo di quella volta in cui mio fratello a due anni cadde per le scale. Non so perché provai un senso di colpa profondo, il senso di colpa del fratello maggiore, uguale a quello, forse, del primo uomo, senza alcuna ragione, se non quella di essere il primo. Mi arrampicai sul mandorlo che bruciava sotto il sole d’estate e piansi, in silenzio, e ininterrottamente, da solo, finché mio fratello non tornò dal pronto soccorso con due punti di sutura sulla fronte. Avevo 5 anni, la stessa età di mia figlia oggi. Chissà se anche lei ha mai provato qualcosa del genere, pur essendo figlia unica, per un capriccio del caso, quando litighiamo e si rifugia in camera come se di anni ne avesse 13. Attendo qualche istante che decanti la sua rabbia, e poi provo ad entrare. La stanza è buia, come buio doveva sembrarmi quel mandorlo sotto il sole di agosto. La porta non si apre perché lei è inchiodata, appoggiata dall’altra parte del legno. Poi sente la mia pressione leggera, la mia voce pronunciare il suo nome, si scosta, mi lascia entrare e al buio mi abbraccia. Le chiedo scusa se ho alzato il tono di voce, provo a spiegarle le mie ragioni, ma dentro di lei è già tutto finito, non c’è bisogno di parole, mi chiede di iniziare un nuovo gioco, di preparare una cioccolata calda, di stare un po’ sul divano a osservare i pesci nell’acquario, o di andare a guardare la luna e le stelle in cortile.
Con Monica ho vissuto in tre case, il ricordo dell’ultima è straziante. Era una casa molto bella, luminosa, della giusta grandezza, in una zona di Milano non centrale, non troppo periferica. I vicini di casa erano tutti gentili, il portiere anche. La signora del terzo piano ha avuto una crisi nei mesi precedenti alla vendita, era spesso su di giri, ma l’ho anche vista qualche volta piangere seduta alla panchina del giardino. Suo marito mi sembrava una persona molto degna, nel lavoro e nel prendersi cura di tutto praticamente da solo. Qualche volta ci aveva chiesto un aiuto ad occuparsi del bambino. Ormai da tempo non so più nulla di loro.
Frequento la casa di Veronica da un po’ ormai. Per me quella casa è la libreria che abbiamo costruito insieme, ed è quella locandina di uno spettacolo teatrale che non riesco proprio a digerire. Non ha mai cambiato posto quella locandina, nello scomparto più alto della libreria. Mi chiedo se la scelta del posto sia dettata dalla volontà che sia visibile, o, al contrario, nascosta. Più probabilmente è una scelta casuale. A Veronica capita spesso di fermarsi a guadare il pavimento nei momenti di tristezza. Non le ho mai chiesto il motivo. La immagino osservare i dettagli delle piastrelle, chiedersi il perché di certe piccole crepe, domandarsi che intenzioni hanno, come vogliono allungarsi o allargarsi, se si aspettano di essere chiuse. A me invece la sera, prima di chiudere gli occhi, piace fermarmi a guardare il soffitto, come se si trattasse del cielo stellato nella notte di San Lorenzo. Ogni minuscola piega è un vuoto che si fa desiderio. Mi piace anche quando Veronica si fa stella di presepe nella curva tra il braccio e il torace.
La prossima casa che abiterò sarà la sintesi perfetta dei ricordi delle case che ho vissuto. Perché nel presente ogni casa è abitudine e sicurezza, ma nel passato e nel futuro è il ricordo, la memoria, del passato o del futuro. Così vorrei che la mia prossima casa avesse un giardino, un divano verde, una libreria larga e altissima, e un soffitto bianco e imperfetto, irregolare, per continuare a desiderare, e altri oggetti o suoni o immagini che vorrei un giorno poter ricordare.

 


 

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