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Saracino | La camicia bianca che porto

VOGLIO ESSERE SINCERO COME LA CAMICIA BIANCA CHE PORTO, scriveva Odisseas Elitis da una riviera dello spirito, che è forse quella della massima compassione verso ciò che ci circonda. Nel colore netto e assoluto del bianco non solo profondamente esordisce il calco di uno dei più bei versi della lirica greca contemporanea, ma pure si definisce una riflessione che decido di condividere nella brevità di un modesto intervento.

È bianco ciò che scegliamo di non essere, dunque quanto di noi resta ai margini di una strada mai imboccata; sono bianchi il dominio della pagina e l’atto della scrittura nel loro fatale antefatto; bianco è forse il suono di requie che non ha nome né memoria di sensi e che non ci stanchiamo di cercare, pellegrini devoti, per una intera vita. Ma bianche sono anche le cose inqualificabili, perché non visibili, non catalogabili, non riproducibili; non macinate, insomma, dal traffico social dei tempi, in cui l’esposizione eccessiva (dei propri pensieri e del proprio corpo) è certamente una reazione alla morte, ma anche una passione facile, slombata, architettonica scure di una commedia destinata a sollevare un effimero favore.

Bianche sono alcune parole, oggi raramente frequentate: pudore, fragilità, dolcezza. Scambiate il più delle volte per mollezza, debolezza, viltà, costumatezza, insicurezza. Eppure, sono parole che rimandano a stati duraturi e inconfutabili dal tempo: il pudore, che si sottrae alla vista o allo sguardo altrui perché composto nella misura di una statuaria intimità, è quanto di più straordinario possa aversi; nel sistema della vita, non è forse l’essere fragili ad esporci a una “maggiore vita”?

Non è forse in un certo tipo di abbandono che si slabbra e si deconcentra lo spasimo degli anni, finalmente pronti a schiarirsi sotto la membrana delle nostre ottuse difese? E nella dolcezza, stato di grazia infuso che acceca le diffidenze e vince sulla volgarità, non è forse radicatissima la volontà profonda di inverarsi nel mondo?

Eppure, di questi tempi in cui diventa automatico e quasi d’obbligo “patologizzare” il corpo estraneo – la spina nel fianco, il punto debole – le nostre tre parole, così possenti così arcaiche, sono costrette a guardarsi a uno specchio sghembo e rotto, diventando lo zimbello degli altri, passando di bocca in bocca ruminate dal riso sguaiato di chi, evidentemente autocelebrandosi, non sa vederle nel loro incanto primordiale, nella loro sopraelevata integrità.

 

 

Nel tempo dei record – il record dell’invulnerabilità, della perfettibilità, della impavidità – non c’è scampo per chi segue un altro indirizzo: per chi, nell’oscurità di un destino franto, non sa quale soluzione intravedere, quali domande porre, quali risposte aspettarsi. Nuovi reietti: esattamente le persone pudiche, fragili, dolci. Creature che disinnescano l’apparente inossidabilità delle nuove ideologie (fanatismi religiosi, salutisti, animalisti, sessisti…), perché – semplicemente – vivono nella duttilità di un’arma più bianca, ovvero non sanno mentire a se stesse.

Spesso ho sentito giudicare come codarde persone invece composte da una franca purezza. In tempi guerrafondai, in cui sei riconoscibile se hai la capacità di difendere strenuamente i tuoi stessi torti, parlare di purezza è demodé.  Chi la incarna è un pavido, uno che non sa dire la sua o che non vuole esporsi.

Nel cortocircuito di questo erratissimo calcolo, non è un caso che il mondo imploda di individualismo spicciolo o di equivoci ingannevoli.

Ma è nella vulnerabilità che resistiamo e siamo. È quando cadono le obesità del tempo orizzontale, stracolmo di congetture e complicazioni, che davvero entriamo nella dimensione verticale del tempo, sprofondando nelle viscere della nostra e delle altrui esistenze. Fragilità, pudore, dolcezza: parole bianche, lasciate alla distanza dei passi, non calpestate dalle ingombranti orme del contemporaneo. Parole generatrici di altri significati, che stivano – letteralmente – la passione per ciò che non è ostruibile dalle congetture mediatiche, ipertecnologizzate, computerizzate dal fantomatico mondo virtuale. Chi è fragile, pudico, dolce, spesso sceglie di piangere. È nel pianto a dirotto, atto di erranza solitaria, che si gioca l’essenza del nostro reagire alla percussione degli anni e delle delusioni. Cos’è il pianto, veramente? L’addio alla contrazione, al pugno stretto nella morsa dell’inespresso? Perché si piange? Kikì Dimulà, altra grande voce del Novecento greco, ha scritto una magnifica poesia intorno al pianto, il quale, lungi dal finire coll’essere un semplicistico sfogo infantile, è esattamente il suo contrario: attestazione massima del diventare adulti, spazio di arrendevolezza e di non risparmio verso ogni tormento.

Annaffia tu il vaso

e lasciami piangere.

Scrivi solo le ragioni,

nel caso mi tocchi un altro lutto ancora.

Voglio avere la coscienza tranquilla

d’essermi tormentata per ogni cosa.

È il segreto dei fragili, dei pudichi, dei dolci: la remissione e il darsi, la resa e il perdono, il respiro largo. In fondo è loro il gesto della più alta generosità in vita. Chi piange è chi sta scomparendo per avere affrontato massimamente ogni rischio. Chi, nel vano vuoto della penombra, ha tinto gli interstizi di un intervallo bianco e ha salutato per sempre.

 


Images series: Dòra Maurer | Seven Twists I–VI 1979/2011 is a self-portrait of the artist comprising six framed black and white photographs on paper, laid out in a single row. The first photograph shows Maurer holding up a square sheet of blank paper that mostly covers her face, with only her right eye and hairline visible. Each subsequent photograph presents the artist holding up the previous photograph in the same manner but rotated by forty-five degrees anti-clockwise. In each photograph her actual face is angled alternately more or less towards the camera, with a little more of her face being revealed each time. The work was reprinted in 2011 for Maurer’s participation in the Istanbul Biennial that year. It was printed in an edition of five, of which Tate copy is the fifth. While the original vintage prints had the dimensions 230 x 230 mm, the size of the reprinted edition is smaller at 205 x 205 mm.

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