Saracino | Le ultime parole di Heathcliff
Più di tutti mortale, trafelato,
tu più solo sei vissuto nel giro
degli orologi fatti a mano,
le improvvise clessidre del tuo male
donde quaggiù colava così esatta
coi granelli di sabbia raggelata
la tua noia infinita ove ti disfi.
(S. D’Arrigo)
Ci sono molti modi per far maturare e declinare un’idea di rifiuto/resistenza. Ed entrambe queste parole sono diverse, appartengono a dei piani di emanazione di significato che possono divergere concretamente, fino a non congiungersi mai. L’opera del rifiuto e l’atto della resistenza sono isole ascrivibili a un’ampiezza di anni, eventi, accadimenti che spesso non possiamo decidere di decifrare o computare autonomamente, spensieratamente. Occorrono prese di coraggio e visioni per tollerare che rifiuto e resistenza entrino in gioco nella vita degli uomini e agiscano veramente.
Di questi tempi, si può parlare di qualcosa che li assomigli? Tragicamente esistono casi di persone straordinarie che muoiono respirando il genio del loro altruismo, che sacrificano la carcassa dei malintesi a cui sono crocifisse pur di arrestare il ghiaccio dell’annichilimento e apportare benefici all’’umanità. Ma occorre molta grazia per riconoscerle. Occorre la vocazione a leggere gli altri senza auto proiezioni inutili o assetti di giudizio.
Ed è proprio a quell’orizzonte di misura che dovremmo appellarci, quando le acque del mare si fanno torve e sobillatrice la parola si richiude sul suono. Poiché è anche il suono ad essere coinvolto, quando scegliamo di rifiutare e di resistere. È il suono della solitudine, diviso dalla fuga dei pensieri e dalla strenua forza di mettere argini all’ambiguità; è quello della nostalgia del non essere stati mai compresi, preveggenti di un tempo posteriore, oscurità poetica che fa luce sull’avvenire; è quello remoto ed enigmatico dell’esclusione, di cui ci sentiamo edificatori passivi.
Esistono molti modi per essere nel rifiuto e nella resistenza, parole conturbanti, attraenti, spesso recuperate dalla facile critica di chi giudica il mondo con rapidità e dice: ah, lui è bravo, lui ci sa fare, lui sì che ha carattere. E invece il rifiuto e la resistenza vanno trovati più a fondo, nel terreno vischioso dell’anonimato, dove non c’è luce e la strada è sterrata, le pietre erose, il fango incancrenito dalla sensazione di vuoto. Se il rifiuto alberga nell’istante della rivolta che nasce dallo scrupolo di voler “essere”, la resistenza si consuma sulla linea del tempo che prolunga il tempo e continua a crescere, mettendo radici, non affrettandosi, concedendosi il privilegio di accanirsi sui giorni, modellandoli nell’ascesa o nella distruzione. Poiché vi son due facce del resistere che appaiono in controluce come velate forme di una sola verità. La resistenza che costruisce, dimentica, solennizza la vita, la reinventa, la definisce nella somma delle possibilità che distribuisce; poi c’è quella che deturpa, arreca danno, confonde, abbrutisce e sfinisce. Entrambe mosse da una infinita forza vitale, in qualche modo: una forma sull’esistenza.
C’è una pagina in Cime tempestose che più di altre soverchia l’incalzante clima di clausure caratteristico dell’intero romanzo, senza che mai venga tagliato, maldisposto il tacito compromesso tra lettore e scrittrice, ovvero quello di credere che nel male si celi il seme della promessa e che nel bene si ausculti, come battito cardiaco, quello della rovina. È quando Heathcliff ordina a Nelly di restare seduta ad ascoltarlo.
“Che conclusione scadente, no? […]
Tutti i miei sforzi accaniti per questa fine assurda? Mi sono procurato palanchini e picconi per demolire due case e mi alleno per diventare capace di faticare come un Ercole e quando tutto è pronto e in mano mia, scopro che la volontà di far saltare anche solo una tegola di uno dei due tetti è svanita! I miei vecchi nemici non mi hanno battuto […]. Sembra quasi che abbia lavorato tutti questi anni solo per rivelare, da ultimo, un elegante tratto di magnanimità.”
Forse, il lavorìo del rifiuto e della resistenza sono esattamente quel che Heatcliff riassume nello scorato specchio del suo solipsismo. Usa Nelly, ma in verità parla a se stesso. Rifiuto e resistenza brandiscono con forze impari lo spazio che creano ed innalzano, poiché ogni fatto, accadimento, esperienza prescindono dal nostro sforzo di concepire un’unica strada maestra. Perciò nel rifiuto e nella resistenza non è che gettato un perimetro di occasioni dove i confini e le misure suggellano patti precari, come precaria è la vita stessa, instancabile, provvisoria preparatrice di misteri. Laddove c’è nel mistero stesso una speranza di fine, altri misteri si producono, in un’inesauribile officina di segreti. Chi si rifiuta, chi resiste? Forse la grazia perduta di chi si spinge oltre i propri possedimenti, i propri limiti, le proprie terre. Forse un re senza difese, armato di oro e solo, nella più accattivante sera delle sere. Oppure colui che partecipa della vita pienamente e non rende gli altri vittime dei suoi terrori.
Painting: “St. Jerome Writing” | Michelangelo Merisi da Caravaggio | Oil on Canvas | 117 x 157 cm | 1607-1608