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Saracino | Intelligenza invivibile

Può accadere di chiedersi cosa sia veramente l’intelligenza e in che modo si manifesti.
Tra le tante spaesanti riflessioni, succede di cadere nella trappola della legiferazione, come se il quesito fosse facilmente risolvibile o aderente a un unico indirizzo: il nostro esclusivo modo di leggere la realtà.
Eppure la tentazione esiste. Tra i tanti tipi umani che la vita offre di incontrare, la formula più facile di accesso a una qualche spiegazione sull’intelligenza va nel senso del nostro sguardo, delle nostre esperienze (e del loro conseguente limite).
In tempi in cui la sistematizzazione dei vari tipi di intelligenza pretende di fornire classificazioni e ruoli nella società; in tempi in cui la loro “assenza” è già letta come patologia, personalmente sento di difendere l’impossibilità di ogni pretesa di descrizione. Anzi, per quanto immatura, tenderei a portare avanti l’idea che l’intelligenza, in verità, sia ben meno visibile e afferrabile di quanto si pensi.

Mi spingerei a “guardare” ribaltando i piani, assecondando la visione capovolta di un’intelligenza che non esiste nell’abbecedario delle attuali strumentalizzazioni. Andrei verso le derive degli eventi umani, dove una persona “intelligente” si fa muovere dalla sua medesima unicità. Oppure, penserei all’intelligenza come al corpo: alle sue movenze alterate dal sentimento, alla sua rovina, alla sua decadenza, alla sua eccentrica disposizione verso il dolore e verso il piacere. A qualcosa insomma che va incontro al logorìo ma senza opporvi resistenza.

È strano, un’ulteriore speranza di non definibilità dell’intelligenza mi proviene da due eccezionali facoltà umane: saper compatire, sapersi immedesimare. Entrambe molto facili a teorizzarsi, a predicarsi, a elargirsi e invece rare, destinate a compiersi in quella che a mio parere è forse la falda estrema del messaggio umano. Il conclusivo debito verso gli altri. Intelligente è chi sa accogliere fuori di sé, nell’accettazione della subalternità della sua vita violata dalla presenza altrui; è chi afferra, con innato spirito di semplificazione, un pregiudizio e lo scardina; è chi si mette nei panni degli altri, alla soglia di un vero atto amoroso, ma senza la retorica prevaricante dell’empatia come chiave del successo. Anzi è nella chiave dell’insuccesso l’intelligenza, poiché a nulla serve doverla dimostrare a tutti i costi.
E allora penso ch’essa sia davvero invisibile e invivibile. Che non corrisponda alle abusate definizioni a cui la scuola, le mansioni, i luoghi pubblici ci abituano: logica, ragionamento, risoluzione dei problemi, prontezza, pianificazione, astuzia, adattabilità.
Penso sia fondamentalmente un’altra scala da salire, o da scendere. E che in pochissimi sappiano riconoscerla. Penso pre-venga il linguaggio e al contempo lo superi: dunque uno sconcerto dell’essere, un travaso nell’istanza del possibile, una rivelazione.


Foto di Joshua Fuller

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