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Saracino | Poetica del desiderio

Ogni esperienza della vita individuale riguarda tutti: cioè riguarda isolatamente ma anche collettivamente la persona che la sta attraversando e vivendo. Se così non fosse, percepiremmo la desolazione dell’incuria e della esclusività, termini in contrasto con il gesto eclatante ed atletico della condivisione. Se così non fosse, le ferite aperte e cangianti, nell’evoluzione della guarigione, non sarebbero il ponte da cui disertare ogni banale motivazione e spiccare il volo della gratitudine, che sempre ci chiama, in una precisa ora della vita, a fare dell’introspezione una causa comune in cui tutti possono riconoscersi e rinnovarsi.
In questo senso, anche il sesso nasconde le sue forre da cui passare e tracciare passi, sentieri, misure, elargire respiri di accoglienza o commiato. Da questi meravigliosi dedali mappati di istinto e spirito di esplorazione, ognuno può trainare la sua voce ed intonarla al suono di circonferenza del cuore.
Eppure, le relazioni umane, che non sempre incoraggiano alla semplicità, avvizziscono e tremano alla stessa maniera di una foglia percossa, se abbandonate alla riserva e alla penuria o se non sostenute dalla libertà di un’anima carnale che le accompagni alla fiaccola di un percorso. Ed è in questo preciso punto che fa la sua comparsa la parola “desiderio”. Cos’è, in una poetica del sesso che diventi armoniosamente anche pratica, il desiderio? Quanta distanza esiste tra ciò che sogniamo come desiderato e la sostanza reale del desiderio? E qual è la porta d’ingresso dell’amore, in tutto questo?
Probabilmente, in nessun caso le risposte ci acquieterebbero e con nessuna certezza potremmo tracciare i fili insondabili e misteriosi del testo che il desiderio compone. Dal momento che vi è nel desiderio stesso un’enorme solitudine e talvolta una landa talmente sprovvista di significati da porre in evidenza la fallacia di ogni logica.

Come può, ad esempio, una relazione sentimentale stabile e battuta dal ritmo del quotidiano essere alimentata costantemente dal desiderio? Cosa ci convince dell’altro a restare e a non cedere alle tentazioni della fuga, della trasgressione, della rivolta? Viceversa, a cosa allude la lusinga del piacere quando convoca, invita, esonda?

Forse, la rivelazione più profonda e plausibile sta nella parola immaginazione, la quale, benché oggi mondanamente investita da più ruoli, rimane ancora il caposaldo di una certa avventura del pensiero e dell’eterno che vi passa, una sorta di lume che transita per la cruna del mondo altro
o del saper vedere con occhi sempre nuovi. Come a dire: il desiderio è la vanità di un’assenza che tanto più si acuisce se rifuggiamo dalle cose ordinarie. Infatti aspiriamo maggiormente a qualcosa quando ne siamo sprovvisti; tanto più desideriamo qualcuno se è fisicamente o intellettualmente lontano da noi. Come se in questo solco scavato dalla distanza fosse possibile rivivere noi stessi mediante un linguaggio rinnovato e critico; come se per trarre godimento, linfa, piacere, fosse necessario anche un po’ soffrire di un vuoto, appiattirsi, annichilirsi dentro una tabula rasa di ricognizioni su noi stessi che vorremmo finalmente esorcizzare, anestetizzare, interrompere. Un atto quasi ritualistico, purificatorio, incendiario: l’immaginazione è tutto questo. Dunque, un atto fatalmente liberatorio e sessuale.
Una volta il poeta Guido Gozzano, grande testimone dell’estetica del vago e della perpetua passione per l’assenza, in una lettera spedita da un luogo remoto, chiese al suo destinatario: Quali notizie dal mondo? Io nessuna. Svincolando la domanda dal contesto originario, mi piace pensare che in questa curiosità vana, a-funzionale, inutile e soprattutto nell’auto-risposta secca e desertica esista il nucleo di quello a cui il gioco del piacere sensuale conduce: l’assoluta necessità del nulla che talvolta arriva a dirigerci e a combinare le nostre esigenze di estremizzazione del desiderio, il quale oltretutto non si presenta quasi mai con il medesimo volto – cambia al mutare delle età; riemerge, quando lo credevamo definitivamente sopito; veglia nella quiescenza del diletto o della cattività; si infittisce di impulsi o decresce nella lista lenta delle intenzioni; gode dei benefici della passività o scatta al passo lesto dell’azione. Talvolta non ha voce. In altre, la ha così forte da scadere nella improponibilità o nella efferatezza della violenza, ad ogni gradazione. In certi casi, è il bilancio di tutto ciò che appare come postumo a noi stessi. Perché il desiderio slitta sulla logica ordinaria del tempo e nel cortocircuito che innalza sfoggia quella carcassa di semenza che avrebbe dovuto manifestare un attimo prima, o un attimo dopo.
Di contro, che tipo di relazione lo avvicina all’amore? Nessuna e molte, allo stesso tempo.
Che amore e desiderio camminino a braccetto e all’unisono ha un senso troppo acerbo da cogliere. Forse, il segreto è nella coltura che i due approfondiscono, ora scindendosi ora riunificandosi al momento giusto. Forse, parlare di desiderio e amore equivale a parlare di resa e giovinezza. Torno a dire che in una certa vocazione all’abbandono, alla remissività, alla arrendevolezza, il desiderio spicca di più: si mostra, finalmente gigante e magnifico, esaltante e costruttivo. Innalza le sue abitazioni auree e suoi palazzi fiammeggianti; le sue braccia rigogliose, avvinghiandosi alla vita, la tengono in pugno, la tergono nella notte più cupa.
Sottrarsi, per raggiungersi. Ridursi, per incontrare la durevolezza e il vigore dell’amore che resta, che, passato al setaccio, non ristagna nei suoi residui ma sale sulla superficie e vi permane.

 


Featured image by Erik Dungan

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