Saracino | Splendere di antico
Spesso le immagini, qualsiasi sia il luogo da cui si originano, esprimono una particolare attitudine umana, quella di lasciarsi depositare da una moltitudine di sentimenti, attraversate e sorrette da un linguaggio non verbale, esterno alla storia e alle circostanze. Quelle di Katrien De Blauwer, artista belga che si definisce “fotografa senza macchina fotografica”, nascono scorporate e sono l’evoluzione di diversi collage che vengono alla luce esattamente dalla frammentazione. Poi, tendono a ricostituirsi in opera, alla volta di abbinamenti e sovrapposizioni di carte, ritagli di giornale o riviste, materiali di risulta che si ricontraggono nella forza espressiva dell’arte. Una fotografa senza macchina fotografica che in verità sa sostenere il calibro e la potenza dell’istante, costruendo binomi lirici che possiedono l’inattualità e la verticalità del senso delle cose umane.
Quasi “visti dall’alto”, i suoi soggetti sono arresi ad abbinamenti che respirano la stima e il prezzo di un altro tempo. Non siamo nel pieno delle faccende umane, non ci interessano qui i traffici merceologici delle scadenze consumistiche. Qui siamo chiamati a guardare con la presente e matura ispirazione dello spazio: non esistono gradini di preclusione né impedimenti frapposti. Qui la grazia e la rievocazione sono le uniche “armi bianche”, l’affaccio alla grandezza di un altro modo di intendere la vita.
L’esposizione dei corpi, la loro esigenza sospesa, sono confini, soglie di stanze dentro cui accade il mondo, senza storpiature né stanche riproduzioni. Le linee, le forme, le tessiture cromatiche dei collage, la loro composizione che associa corpi umani a paesaggi urbani o corpi umani ad elementi naturali, sono nuove profondità. Non c’è sfacciataggine nelle nudità, non ci sono aggressive vanità né ansie da ostentazione. Anzi, c’è la divulgazione del senso dell’unicità: unicità del corpo, dello sguardo e di una estetica del tempo che sovrasta le luci, le ombre, le voci, riunendole nel sentimento conclusivo della finitudine della vita. Immagini che, nascendo dalla ferita dello scarto, conoscono il varco del congedo e lo oltrepassano. Non databili, non contestualizzabili, non etichettabili nella dimensione materialistica della vita, queste opere spingono ad imprimersi nella certezza della caducità dell’esistenza e, proprio per questo, splendono di remoto ed antico.