Saracino | Sulla possibilità di sentirsi soli
Ho davanti a me un quadro di Baccio Maria Bacci, Autoritratto (1926-29), custodito agli Uffizi di Firenze. Tre persone, due uomini e una donna, sono sedute intorno a un tavolo. Una quarta figura femminile resta in piedi, all’estremità dei tre, tagliando in due imprecise metà la finestra da cui entra l’assolata collina fiesolana. È il momento del dopopranzo. C’è anche un cane, ritto e in attesa, intento a guardare chi fuma, mentre l’altro uomo stringe a sé una chitarra e solletica qualche corda, con discrezione.
Il primo pomeriggio si sta avverando, la stanza zattera nella quiete di un’aria certamente calda e pacifica, naviga in una arcadica levità e i discorsi si svuotano di senso conferendo alla scena una sorda euforia di principio, al contempo una stasi e una mollezza che tutti dovremmo aver provato qualche volta nella vita.
Quei colli potrebbero essere gli stessi che percorremmo a piedi un giorno tra Piacenza e Ziano o sarebbero i medesimi del poeta Sergio Solmi, quando “alla punta della vita”, con moglie e figli, fu investito dalla luce di un “deliquescente eliso” sulla collina di Bergamo. Le geografie si relativizzano al cospetto della supremazia dei sentimenti.
Firenze è a pochi passi. In città forse la gente traffica, chiacchiera; implode di colori il ventaglio dei negozi. Ma sui colli, nel verde acqua di un mondo rurale e addomesticato, l’impressione è un fuoco che si fa fatuo per passione e dolore di leggerezza. Quel che la superficie suggerisce è il fondale dell’umano quando incontra altra mortalità.
Di ognuno di loro si intende una posa o un sentimento.
L’uomo alla chitarra ha il capo basso e volto a nessuna espressione. Certamente intento allo strumento, ma col distacco che affina un senso di pausa, la ricreazione dell’istante. La donna di spalle ascolta in silenzio, ma viene guardata, un po’ rassegnatamente, dall’uomo con la sigaretta, incurante del cane. Più di tutti è la figura in piedi a insorgere dall’immobilità. E però ha qualcosa di istintivamente triste. È la più solitaria sagoma imbevuta di luce, la sentinella del movimento, la rivoluzionaria. Forse, anche l’uomo con la sigaretta è a suo modo un rivoluzionario, ma gli mancano le forze. Invece la donna in piedi teatralizza la sua malinconia fino ad affermarla e ad incarnarla distillandola nella realtà. Dopo di lei: il paesaggio, l’odore della campagna, lo scorrere dell’Arno, più in là la cupola del Duomo di Firenze. Il cotto dei pavimenti di una casa rustica ma elegante, il vino e le pietanze avanzati. Forse siamo in aprile o in maggio, la mitezza è nei corpi.
Confronto il quadro col tempo che stiamo attraversando. Sentirsi soli tra gli altri appare oggi come un paradossale lusso che questo dipinto evidenzia. Padroneggiare la propria malinconia stando insieme agli altri è un’altra delle cose di cui oggi sentiamo la mancanza. La pandemia non tollera che le nostre amarezze vengano condivise.
Com’è bello talvolta approcciarsi agli altri con la teatrale vanità del proprio ego accerchiato dalla libertà di sentirsi triste. Esiste un piacere nel mostrare un tratto del volto, un gesto del corpo, una posa riflessa allo specchio del proprio sé, durante lo svolgersi di un convivio amicale. Esiste un piacere sensato, disperato e poetico nello stare con gli altri percependosi soli.
Esiste un motivo di sensualità nel sostare tra le pieghe della luce, insieme agli altri, generosamente soli. Persino di questo oggi siamo privati. I giorni pandemici eludono la possibilità di essere vani e sospesi in se stessi e per gli altri. L’isolamento a cui conducono è sterile fotogramma di dolore senza uscita. Invece, potersi sentire soli tra gli altri è una forma di educazione a vivere, a pensare, a cercare soluzioni. Di questo siamo deprivati, pauperizzati, spogliati. Il paradosso del Covid è la sua solitudine senza furbizia, senza scarto, senza prossimità col proprio simile. La solitudine senza semantica, senza firmamento, senza veli. Una solitudine che non può fare mostra di sé chiedendo di essere letta, decifrata, amata.
La ragazza in piedi sente di essere sola e le piace ingombrare lo spazio di questa realtà. Può ancora correre il rischio di mostrarla agli altri e di farne tema di orgoglio, ricatto, disamore, passione, avventura, distruzione. La solitudine da Covid, invece, è il pubblico ludibrio a cui siamo chiamati dai social, che smascherano le nostre nature peggiori, spingono al consumo e al giudizio, spacciano per detentori di verità i semplici maleducati, frettolosamente conducono alle dicerie, solennizzano le nostre povertà, saccheggiano quel che di buono potremmo esprimere. Nessuna luce pomeridiana filtra dalla cassa toracica del respiro malato dei social. Nessuna occasione di solitudine condivisibile.
Nessuna possibilità di sentirsi soli tra gli altri, al tempo del Covid.
C.S.
Featured Painting by Baccio Maria Bacci | Pomeriggio a Fiesole (Autoritratto) | Oil on canvas | 224,5 x 180 cm | 1926-29 | Gli Uffizi, Firenze.