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Saracino | Tempo e reliquie

Leggere Vittorio Bodini è fare esperienza di mimetizzazione. È entrare in una casa di paese, sostare nel corridoio ombrato dell’ingresso, avvertire il presentimento della luce provenire dal cortile, dissimularsi nel mascheramento tetro che talvolta accompagna l’immobilità dell’aria del Sud: intesa come dilatazione immota, reliquiario di spazi e misure, anacronistica imprecisione che debilita l’arredo, gli oggetti, le espressioni dei volti di chi abita. È stare al buio delle sale*, dove il tempo nelle fruttiere germoglia irrequieto e presagisce un oscuro naufragio: non esistono né certezza di morte né ansia di salvezza. È camminare in fila alle funebri processioni dove, tinto di litanie, c’è il racconto di una spiritualità deformata da suggestioni e impressioni ondivaghe. È osare uno strano movimento : tentare il rifugio in una poetica che ha l’accoglienza della prosa, ma che stride al passaggio del lettore sensibile, stretto nella morsa dell’inquietudine metaforica, le metamorfosi vegetali, i colori quasi accesi e stonanti di un prismatico “mediterraneo meridionale” , ridondante per chiuse e aperture, eccessi di empatia non sempre armonica , versi che si abbandonano a un respiro di libertà ed altri che, invece, s’infilzano nella cruna di un particolarismo del cuore, talmente tipico e dettagliato da provocare stupore, commozione, turbamento.

È stare all’ombra di una reliquia. Dove l’ora è tappata in una bottiglia verdognola si comprime il viaggio estetico dell’amore, che pure assorbe e addensa ogni occasione per rivelarsi , molti anni dopo, spasmodico e salmastro sulla linea del tempo: Oh, vi sarete fermati anche voi qualche volta di notte/sotto un balcone o un albero,/udendo il grillo italico cantare, /e a quel brusco interrompersi dei vostri passi/ schiudere false rughe, spingere come lontano/da sé il canto, o tacere/ e subito riprendere da un altro punto illusorio.

Come in un secchio rovesciato dal verde dell’orizzonte, o il “giallo d’ossa” che anticipa la venuta di una notizia di morte, di Bodini è potente l’abitato creaturale e simbolico che vive o vegeta ovunque, in un eccesso di esistenza, lambente coi suoi cordami a volte affannati, oscurati, non spensierati, ma irrisolti, legati dal nodo della precarietà o dell’ingombrante passato, quest’ultimo terra di spettri amari la cui voce riecheggia come un lamento o un’invocazione. “O antico, antico, non pare mai d’esser morti.”

Il Sud, per chi lo sa avendolo vissuto, rassomiglia alla reliquia di un Santo. Isolato, silenzioso, iconico e tragico, nella sua solenne aura di esclusione, racchiude la sensuale decomposizione di un fiore in verità mai inaridito, che tuttavia male odora, se ammirato troppo da vicino. Lo sanno bene le ondine dei mari rifranti alla controra o la piazza allagata di tramonto, sui palmi dei vecchi abbarbicati al bastone della vita che si perde.

E’ il fulgore meridiano di calce traforata che passa tra le fessure e fiata su ogni forma o perimetro rovesciandovi quell’esausto dominio dei sensi, che è del Sud del Sud, la terra dove la metamorfosi è una fiaba ancora animata e abitante, dove il fazzoletto insanguinato/appeso al fil di ferro/diverrà pipistrello, dove tutto è arreso alla stagione della molteplice sembianza, della combinazione di incanti e rovine, tanto magnifici e guasti da doverne tacere : Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud del Sud. Reliquiaria è la visione che si accanisce su un Sud raggrumato di istanze contadine, affreschi rupestri, fondali sabbiosi, umori salini, raggi luminescenti, notti indolenti, vivande avvizzite, resti di insetti infissi nella scorza del legno, torri che simulano il fuoco ancestrale di camini all’aria aperta.

Reliquiaria è l’opera di Bodini: un inesauribile recesso da cui scivolano come tessere di mosaici bizantini i luoghi del cielo e della terra che insieme si mescolano per retrocedere a uno stato di primitiva narrazione, dove mito e vita insieme si abbeverano e conversano.

E’ un panismo mediterraneo, struggente, dolente per troppa ambizione all’antico . Ma cos’è questo antico? Forse, il passato imminente di cui avrebbe scritto Carlos Barral: una sorta di rievocazione continua, stigma di un fato narrante del Sud. Dove tutto si racconta, anche lo spazio e il tempo si dilatano nella prestazione affabulatoria. Così l’invenzione del Sud parlante campeggia ovunque e ovunque si diffonde: Come farò a diventare antico/almeno fino ai secoli in cui un demone/sveniva in ogni bianco giglio/e l’universo era già tutto scritto/in un rampante agreste mosaico?

La poesia di Bodini è nella firma incisa con la pietra da un ragazzo del 1720 su un affresco di Cerrate; è nella primavera chiara di Acaya; è chiusa nel pugno d’oro di un ipogeo a Giurdignano; sventaglia tra le stoviglie di una cucina di contrada. E tuttavia non muore nel confine geografico della Puglia, ma scavalca ogni restrizione territoriale ed entra nella tradizione della migliore letteratura mediterranea, dove l’istinto per la vita e per la morte si incontrano, pasteggiano all’ombra di un monologo remoto, antesignano dell’immagine, preparatorio alla scrittura.


*Corsivi e virgolettati da Vittorio Bodini

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