Spinelli | La parte di Malvasia
Che cosa c’è a metà tra realtà e finzione?
La voce.
E se uno uccide un corpo, e lo fa a pezzetti, la voce allora che pezzo è?
LA PARTE DI MALVASIA di Gilda Policastro, edito appena due anni fa da La nave di Teseo, è la storia di una voce narrante, una voce senza capo né coda, che non si sa bene da dove sia arrivata e perché, e neppure si sa come sia morta, nel caso morta lo sia per davvero. Malvasia, una “straniera” che compare improvvisamente in paese e di cui nessuno sa niente (o quasi), un giorno viene ritrovata senza vita nell’abitazione in cui era andata a stare, forse per suicidio o forse omicidio, ciò resta un mistero. Il paese, di questo delitto, rappresenta l’antefatto, il presupposto del libro stesso. La dichiarazione di intenti di chi scrive è chiarissima:
…come se raccogliesse dei materiali per un libro sulla vita di paese (era per questo che si era trasferita lì, per documentarsi?) o di un abbozzo di memoria sulla propria vita.
Il paese è l’antefatto, il sostrato. La terra o grogiolo di voci che all’inizio del racconto narra in prima persona plurale, e da cui si manifesta ex abrupto la pianticella della malvasia e si stacca, come l’attore principale dal coro. Prima il ceppo, poi il fusto: una voce distinta che sembra perfettamente riconoscibile. Poi il primo sdoppiamento e i tralci, quando il racconto della morta inizia a confondersi a quello di chi sta indagando su di lei, Gippo, e si rovescia, va a ritroso o a spirale, fino a intercettare le dichiarazioni degli altri personaggi, gli amanti, le fidanzate, le madri e le zie. Questa voce, che ritorna così ad essere moltitudine, fa un passo avanti e poi due indietro, tra memoria (umana, tecnologica) e immaginazione: ma l’immaginazione di chi? Di chi scrive? Di chi parla? O di chi è chiamato sulla scena? Se il Tempo è lo scarto tra realtà e finzione, questa voce eterna oscilla continuamente fra i due fuochi dell’ellisse, mentre la sua sintassi – che è sintassi dell’eros – la fa da padrona, detta la musica in una danza in cui il sesso, violento ed estremo, sesso all’odore di albume, è espiazione, e serve proprio ad andare avanti e indietro fra i due punti fissi del piano: tra il tempo dell’aspettativa, della speranza, del prendersi cura, e il tempo dell’evidenza, il tempo della morte.
Il morto non è un morto: è la morte.
La morte è la sola realtà, tutto il resto è finzione. Sta lì in scena, lungo tutto il romanzo, come uno spettro, mentre tutti gli altri attori, i personaggi, o meglio queste persone di carta, come le definisce Policastro, restano come incarcerate, eterne, immortali da pagina 1 a pagina fine.
Se il problema di ogni romanzo è il tempo, dare ordine ai pensieri, dare loro una struttura, qui il romanziere ha ucciso ogni ordine possibile e lo ha appeso al chiodo, perché ogni ordine è artificio, è coatto e non ha nulla a che vedere né con la nostra vita, né con la nostra morte: si gira in tondo e basta, si danza intorno alla sala della festa, a cui sono stati invitati tutti: tutta la caserma, tutti gli indagati. E se per caso vi capitasse di imbattervi in un romanzo in cui la Letteratura ha le sembianze di una bambina, che viene sgozzata nella vasca da bagno, qui vedrete che vi apparirà con un’identità completamente diversa: qui la Letteratura è una signorina, una vecchia zitella ultra-centenaria, che alla fine del ballo, si fa accompagnare a casa dal commisario di polizia e una delle nipoti dell’ospite. Una vecchia zitella, che non muore mai. Che non muore mai.
“La parte di Malvasia” di Gilda Policastro | La Nave di Teseo | 2021.