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Montorfano | L’intruso

Dicono che sotto un cielo azzurro, il vento passi quasi irriconoscibile.
Che da lontano, la durata delle cose sia solo il brusio dell’inatteso.
E che là, nel nero, le mani sono fianchi di prigione, gli ostaggi vetri rotti a finestre rotte. Non cambia nulla. L’approssimarsi è una lacuna. Il distrutto obbedisce all’incontro. L’inaccessibile promette un giudizio e un riposo che il tempo non può riscattare. Stranamente simili: andarsene è una scrittura estrema, sprofondare è la cenere di ciò che rimane. Precipitare, raccogliere si assolvono sempre all’infinito.

Allora, ciò che scriverò, ciò di cui mi sto accingendo a scrivere, dovrà intendersi come parole sul bordo di un cumulo di immagini. A lato delle parole stesse pronunciate sopra queste immagini. Un’operazione di taglio per sollevare i bordi di questo rancore e questa stanchezza, fantasticando di una profondità segreta che si mostrerà similmente a quando teniamo in scacco il nostro cuore, similmente a quando gli altri tengono in scacco il nostro cuore… Così, all’apertura di questa regione incerta e nebbiosa, in questo spazio minuto e incolore, avanzerà qualcosa di aguzzo. Un lacerto, una striscia sottile che si muoverà ferendo come un colpo di frusta. Forse, saranno gli orli più scuri del letto dove le parole si terrorizzano e si fermano diventando buchi, tane tra il “panico amoroso” e la distruzione, tra il gesto delle mani quando mostrano i palmi aperti al corpo che le crolla addosso e tutto ciò che prende il corpo con la sua pelle e lo trascina verso di sé come qualcosa che fa male, come un risentimento. Oppure, guardando da più lontano, gli occhi scoveranno l’impronta di questa vicenda e le mani dissoderanno lo spigolo di una faccia rivoltato a terra per non farsi vedere e che è principio del profilo atipico di una reclusione o di una preclusione su se stesso. Lo spigolo di una faccia incassato nella terra, nella fanghiglia, lo sfioramento di nascondigli di verbi come: respirare, toccare, tremare, aspettare. Così, nella prima pagina dell’evento, la vetta del bordo è questa cosa che trapela da ogni parte senza darsi a vedere, gioca nella concavità di timide fessure, anfratti che sfoglia, dilata come un gomitolo di segni da rotolare e srotolare. Qualcosa di solitario che tenta al di là di questo ruscello poco profondo del testo di farsi somigliante, di svolgersi sotto le immagini delle cose con tutta la fedeltà premurosa della didascalia di un libro. E così facendo, mette in crisi i lineamenti della forma e la fibra delle parole ponendosi ora più in là della somiglianza, del mormorio della somiglianza, ora più sotto, nel grado zero dell’azione. È un colpo di scena. Una strana corsa tra il visibile e il nascosto, l’orizzonte infinito del palcoscenico e la tana come sovversione e rivolta di tutto ciò che è sconfinato e aperto. Una specie di autorità spoglia che risuona nella carne dell’altro, nella cecità dell’altro. È l’intruso. Il grumo, la bolla d’aria, un fastidio e un disordine nell’intimità. È l’esclamazione che ha preso spazio nel corpo della casa, corpo che allarga, che fruga come un filo che va da dolore a dolore, partecipe alla creazione di un’oscurità con il proprio pudore.

 

L’intruso è quindi, prima della propria immagine, l’apparizione di uno sforzo. L’osservanza a un’irruzione che apre un varco nel mondo e nel quale scivola in modo inconsueto: come intrattenimento in un groviglio inestricabile di mosse e contromosse ideate per non farsi trovare.

Circospetto, circondato dal silenzio affinché i pilastri che lo attorniano non inizino a rumoreggiare, ad allargarsi e infine a cedere rivelando il proprio germinare, nasconde il florilegio del suo possesso e del suo scavarsi conservando costantemente la propria autorità nella paura di essere scoperto. Non può proferire né raccontare né confessare. Mistero personale e compendio di ciò che mantiene il controllo della propria doppiezza. È un repertorio di movimenti forsennati tesi a trovare scorciatoie per indebolire la controparte che si trova, nell’immediato e a propria insaputa, gettata di fronte al tavolo delle trattative continuamente urtato dall’energia sregolata che l’ha inventato e che alza improvvisamente la posta, pone limiti e aggiramenti, costruisce un dedalo di precauzioni minuziose attraverso spaccature e corruzioni, esponendosi a incredibili complicazioni che continuamente deve affrontare e aggirare in modo fraudolento, sapendo che nell’illecito tutto è continuamente da difendere e tutto nasconde una fragilità innocente da depredare attraverso il fraintendimento e il depistaggio, la coercizione e l’inganno.

 

L’intruso è quindi primariamente: manovra. Tattica e tatticismo per costruire l’impalcatura di menzogne necessarie a dispiegare il proprio essere in quel centro di cui sta prendendo possesso. È frattura, risaldamento, rifacimento, rincorsa a una storia che è il fascino continuo di un esordio. Visto da questa angolatura, da questa cornice sotterranea che lo connota religiosamente come un volume in perenne vibrazione, potremmo dire che la sua continua rincorsa, questa indomabilità verso la quiete, lo posiziona come un pertugio stretto e segreto nelle proprie pendenze, linee e asperità. Un passaggio con la sua rete di apparenze, di nascondigli, una fisionomia propria sopra la quale tutto finisce per essere una tessitura di apparizioni e sparizioni, un continuo accerchiamento per chi lo percorre. Si direbbe un passaggio che vuole diventare paesaggio e che quel dedalo di fratture che lo segnano e lo percorrono non siano l’indizio e la traccia di un sisma ma la passione per tutto ciò che lo circonda e che vuole contagiare con il proprio desiderio per creare un’unità così meravigliosamente umana, così estranea da ogni forma di compostezza, da farsi dimenticare come pericolo e consegnare al sogno della costruzione, proferendo una solidarietà così scintillante e pregnante da sembrare un monumento alla riconciliazione. Ma è solo un esercizio di apprensione, di estrema attenzione verso ciò che lo attornia, verso la gabbia che sono i limiti del proprio cuore. Così quando, intorno a lui, tutto si spegne e i passi, le frasi, i lamenti che prima rimbombavano nel suo corpo espanso, l’eco straziato della vita che si storpia sotto la massa del suo allargarsi, si irradiano fino alla confusione delle lacrime, lui cade in una dissociazione ancora più falsa e più pericolosa: quella che concilia un’anima che gioisce solo con un corpo che gode. È un cedimento del tempo. Un taglio e un trauma dove la casa che lo ospita si trova svuotata da un’età propria e cade in un’intimità più profonda di ogni interiorità, una nicchia come un petto aperto sul vuoto del proprio terrore. Una nicchia da stralciare e uno sforzo, un groviglio, un passaggio, questi sono i tavoli sui quali l’intruso contemporaneamente scommette in un’infinita sproporzione di senso.

Un atto e una febbre di dissolutezza attraverso l’itinerario del giocatore, costantemente sospeso tra la vergogna e la dissolutezza.

Se la vergogna lo porta a ritrarsi, riparato e in silenzio, l’insopportabile movimento a stare celato, a crescere in una zona sicura e armonica, lo spinge ad essere spregiudicato fino all’indecenza che è la sua interminabile soddisfazione ad esibirsi, a calarsi nella parte del minuscolo per poi erompere come una terra incognita, l’improvviso pericolo di un precipizio. Il suo è un continuo gioco teso tra offesa e difesa, desiderio e abbandono, oblazione e possesso, nel contatto critico e doloroso con la speranza quando non dice più la possibilità che fugge dall’impossibile.

 

 

L’intruso è quindi una presenza elusiva che non si lascia identificare poiché sostiene un ruolo sempre riservato, tende non soltanto a intralciare ma anche ad usurpare, rimanendo oscuro ed equivoco come la menzogna di cui si circonda. Ma quando la menzogna non riesce più a smussare gli angoli, a conciliare gli incompatibili, ad accorciare il tempo trovando scorciatoie e strette vie secondarie, allora l’intruso inizia a voler evadere da quel groviglio, a tentare un’effrazione nella sorpresa e nella delusione, nella tenerezza e nel desiderio. Inizia a volere essere di più della propria intrusione e delle proprie conquiste, di più del proprio nome: essere un luogo che dialoga con i luoghi. Così sconquassa il pubblico e il privato rendendoli opachi. Imitando le schegge che la strada pubblica e fa transitare tenta di offrire una quotidianità. Ma se da una parte riesce a donarla, dall’altra la sua offerta è penosamente senza profondità perché ciò che concede è una quotidianità sempre incompiuta, così prolissa nel suo continuo mettersi al riparo da non custodire né raccontare nulla, solo un rumore lontano che non copre nemmeno l’essenziale. E non copre l’essenziale perché lo sguardo dietro il quale attinge e attraverso il quale si impone è il movimento sospetto della banalità che, seppure temeraria, nel suo caso non ha niente di originale essendo incapace di mettere in scacco il proprio inseguimento verso un senso. Insufficiente e sospeso, prossimo solo all’immagine di se stesso, la sua è allora la banalità più banale: quella necessitante di due opposti e di una guerra per mettere in movimento il proprio pensiero. Una superficialità che non riesce a confrontarsi con l’ambivalenza dell’Aperto se non riutilizzando la forza equivoca e doppia che lo ha portato alla luce.

Per questo l’intruso offre sempre al violento, che vuole vedere il proprio marchio su ciò che ha violentato, un apparato di difesa e un appiglio dove la furia barbara e brutale possa liberarsi continuando a ripetersi, mantenendo inalterato il teatro del proprio dire.

Nonostante questa attrazione insolubile alla crudeltà che lo lancia nella presenza, seppure laida e feroce, l’intruso rimane un luogo sempre mancato e mancante, sospeso tra la fascinazione del divenire e il realismo categorico dell’incarcerazione, così che l’unico ospite che può ospitare non è l’individuo che può morire ma è solo l’essere più radicale: l’ostaggio. Perché l’ostaggio “non è né morto né vivo ma sospeso a una scadenza incalcolabile.” Non ha la potenza del cadavere né la scommessa del vivente. “Osceno perché non rappresenta più nulla. Scomparso prima di essere morto. A suo modo ibernato è al di là dei termini dell’alienazione e dello scambio. È impermutabile, quello la cui potenza impedisce sia di possederlo sia di scambiarlo. L’ostaggio è nello stesso tempo due cose: è un oggetto annullato, abolito, anonimo e un oggetto assolutamente differente, eccezionale, ad alta densità, pericoloso, sublime.”*
Così mentre Elisabeth collassa nell’immagine pura, quella che non ha più oggetto, Josef stipula un’alleanza che è un’appropriazione e una espropriazione. Un impedimento e un sequestro.
Josef cuce la sospensione dell’ostaggio alla violenza penetrativa del sesso. Cuce un dove. Cuce l’internazione con l’affermazione.

Allora tutto si copre di tenebra, diventa il luogo di una perdita.
Una successione indefinita di denudamenti soffocano il respiro, rendono irresponsabile il rigetto.

Sprofondare, resistere, si scambiano tra loro.
Nella più completa cecità, gli abbracci sono un oggetto mercantile. La pelle, un rudere che cade. Il corpo, un potere e una segregazione.
Tornare indietro, desiderare che tutto sia già immediatamente lontano.
L’esausto, il fondo del senso che non può più parlare.

 

Chiudo gli occhi, scompare il mondo. E questa notte che minuziosamente rimane sull’imboccatura della vita non è nient’altro che me stesso, l’uomo stesso che non può finire se non con una dissociazione più intima, più pericolosa, più falsa appartenente per destino a quei bordi della faglia dove, con estremo rossore, si presentano precisi e fermi: il perdono – l’imperdonabile. La messinscena di una crepa dove manca ancora un terzo termine: l’orlo che rinuncia a terminare il mondo.

 


*J. Baudrillard – Le strategie fatali, pp. 39-56

Bibliography:
V. Jankélévitch: Du mensonge J.L. Nancy: Corpus

Photo by Brando Louhivaara

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