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Saracino | In pari col mondo

La storia delle fiabe è una storia d’età (non anagrafiche ma di spazio, di movimento, di suono). L’eroe esce dalla casa assegnatagli all’atto della nascita (perché non vi è casa che non sia attribuibile a quella ed unica persona) e avvia la sua relazione col mondo esterno (perché qualcuno o qualcosa chiama ed è un dovere del pensiero rispondere). Le strade di cui egli verrà a conoscenza non sono prevedibili né tracciabili anteriormente al suo mettersi in cammino. Lui – il camminatore, l’eroe – dovrà alzare il passo, marciare di buona lena, attutire i colpi della stanchezza, porre un freno alle domande che gli attanagliano la mente e condizionano lo spirito; dovrà insomma farsi a dimensione di terra, dello stesso suolo calpestato, delle stesse segrete radici che lo abitano ed esporsi alla luce di un sole mai stato così tiepido. Sono lontani i ricordi dell’infanzia, la raggiante calura che lo sorprendeva bambino, protetto dalle mura domestiche e da un acerbo durare in mezzo alle cose. La soglia che si accinge a superare è il nuovo mondo dentro cui s’appresterà a viaggiare, senz’altro dovendosi cibare di una lettura differente della realtà che sta per arrivare: insidiosa, imponderabile, incognita. È insomma un percorso che chiameremo di manomissione: un intervento che va a turbare un periodo di naturale quiete e costringe ad un avanzare non ben precisato, rispetto al quale nessuna certezza può fungere da corredo consolatorio. Il nostro eroe-ragazzo, magari appena dodicenne, sta per entrare nel vivo della sua preistoria. Ovvero nell’eterno di ciò che è sempre stato, prima che la vita lo eleggesse dentro le trame del quotidiano. Perché se la strada è sconosciuta, la meta invece esiste. E raggiungerla è il premio, l’emancipazione, la rivelazione. Chi incontrerà durante le ore solitarie del suo camminare? E quali saranno le parole che sceglierà per raccontarsi? Non c’è enfasi nella terra di mezzo di un eroe che ignora quale sia il suo cammino; non c’è enfasi nel dodicenne che siamo stati, quando una bianca landa fitta di non parole ci ha invischiato nella palude di uno sconcerto e costretto a sparigliare le carte e a vedere sincerità negli incontri menzogneri, ambiguità in quelli dalle buone intenzioni.

Perché uscire alla vita a dodici anni, attraversare il transito della porta di casa, tentare di mettersi in pari col mondo, significa dover trovare anzitutto le parole.

E nel precipuo istante dell’oltre-passamento della soglia, il movimento è uno strappo sull’incedere, una lacerazione, una forra. Si frange l’inespugnabilità del focolare domestico, si inscena l’ultimo atto di una storia familiare che capitola nella memoria, si lasciano alle spalle i miti sognanti e le loro deità. Là fuori, alla dogana del cuore in formazione, ad attendere l’eroe dodicenne è un vegliardo terrore che decima il bagaglio sensuale accumulato nell’infanzia e decreta il punto di esordio: l’avventura inizierà da una narrazione vuota e una strada dritta. Dove sono, in quel momento, tutte le parole che proverranno? Dove dormono le punte scintillanti di quelle schegge sonore che chiamiamo lingua? Da dove, una ad una, appoggiate a una rampa, slitteranno verso l’estasi dei giorni migliori? E dove, invece, lugubri e vane, si prepareranno ad essere creature difformi, mostruose, antagoniste nei giorni luttuosi?

 

Uno dei più luminosi e modernissimi autori di fiabe, Guido Gozzano, arriva in nostro aiuto ed apre con intensità l’argomento. Piumadoro, la sua principessa adolescente, nell’imminenza dell’addio alla casa del nonno, canta, ma non è lei a farlo volontaristicamente. “Non son io. È una voce che canta in me”, dice. Di lì a poco, incontrerà la Fata dell’Adolescenza, che le raccomanderà di guardarsi dalle menzogne, dalle minacce, dalle lusinghe e che le donerà tre chicchi di grano. La parola adolescente non è ancora atto nominalistico e personalizzante, ma un Canto. Un passivo affidarsi alle trame della sensualità che abbaglia d’istinto il suono e che porterà Piumadoro alla Felicità.
Al vaglio del gradino che ci separa dall’infanzia, là dove s’appresta a formarsi l’incognita degli anni, c’è anche il rischio di non farcela; c’è Nevina, che Gozzano dipinge con magistrale compassione, la quale, figlia dell’Inverno, non potrà mai unirsi a Fiordaprile, iniziatore della stagione nuova e custode dei fiori. Lei, creatura di ghiaccio, è destinata a un ritorno al Passato, chiusa nel senso del suo esistere rappresentato da una cornucopia colma dei fiocchi di neve, fedeli giocattoli di quando era bambina.

Il piede dell’eroe che sta per oltrepassare l’uscio di casa incede senza saperlo, allora, nell’abisso di una doppia sorte: la possibilità di raggiungere le mete agognate o la sventura di vedersi costretto a tornare indietro, dopo molti passi, arrancando in una definitiva malìa. Un varco suggestivo e infido, alla vigilia di un evento o di un ritorno alle origini. Una quintessenza divisa tra il coraggio di volere e il pudore di non sapere osare. Allo stesso modo, è in quel taglio di non luogo che si situa e sigla l’esperienza di un dodicenne: in quella acerba gemmazione del destino, là dove la collana aurea degli istanti può generare future ricchezze o miseri abbagli.

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