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Montorfano | Christina’s World

Ha corso, ha camminato. Guarda ciò che non potrà mai essere suo. Guarda ciò che era suo. È arrivata, se ne è andata. È fuggita o è rimasta? Ha parlato o ha pianto per sempre? Guardare è iniziare un racconto, questa è l’esperienza di un quadro che ci impiglia nel suo mostrarsi. Ci seduce, portandoci a pensare storie che il tempo fa conflagrare. Verbi che saltano tra passato e presente, tra azione e ripensamento. Nelle maree del tempo la massa delle parole ci consuma nell’esperienza della visione e la visione le straccia tra i propri bordi e le proprie cesure. Allora poco importa sapere che la donna del quadro sia la vicina di Wyeth, che fosse malata e portatrice di handicap, che ad un certo punto dell’esecuzione fu sostituita da Betsy, la moglie del pittore. Poco importa costruire un pietismo o una curiosità intorno a un quadro che fa della pietà la propria solitudine e del mondo sentimentale la curiosità che ci investe facendoci parlare e poi ammutolire.

Guardiamo, e l’emozione si infiamma per questa figura a terra: i capelli in disordine, la magrezza esasperata, le mani appoggiate al terreno con i polsi eccessivamente piegati, la torsione del busto e del viso verso una casa come patrimonio di salvezza. Se il corpo sembra una terra sfiancata, i polsi sono la firma del dolore. Le mani stanche e strane, in disaccordo con il corpo lieve e minuto. Una in particolare ha la conformazione sinistra di una zampa, di un animale azzoppato, il pezzo di uno struzzo spartito con una donna.

Se l’ambiguità dell’immagine inizia ad affiorare nella mischia dei particolari anche ciò che questa donna di spalle guarda entra nel principio del doppio, in una contrazione sentimentale che ci si getta addosso come un dolore: una sorta d’intimità che ci viene strappata.
La casa verso cui Christina è rivolta, rapidamente cambia d’aspetto. Se al primo sguardo rappresentava la fine del patimento e il premio possibile per un viaggio simile alla vita ora non ha il profumo né dell’accoglienza né della sicurezza ma una gravità e un’indeterminatezza che l’allaccia al patrimonio funzionale della trappola.

È una casa scura, violenta. Una casa abbandonata in tutta fretta con una lunga scala appoggiata alla facciata e una porta aperta invasa dal nero. Anche ciò che la delimita è scoraggiante: il recinto piegato, l’aratro abbandonato, il fienile che si gira mostrandoci le spalle. Solo l’erba ha la leggerezza della gioia. Ma è una gioia cupa, stranamente senza movimento. Una gioia che sembra aver invaso ciò che apparteneva alla vita. E quei segni delle ruote che i fiori, l’erba non riescono a cancellare ci spingono con urgenza ancora verso quella casa, quel recinto, quel fienile, monumenti di ciò che è stato spezzato da questa gioia feroce e che ha prelevato corpi e sogni sottomettendo tutte le parole che danzavano con il rumore del vento. Una gioia che fa dello spazio la propria ammirazione e del silenzio il proprio contagio, la propria idolatria.

Ma questi non sono forse gli stessi eccessi somatici della guerra? E questa gioia eccessiva, misera, dilapidante e splendida non gioca forse con la distruzione mitigandone la paura, spingendo la brutalità fuori dalla portata del cuore e spargendola sulla soglia scura della speranza?
Questa gioia fremente nel silenzio, questa gioia all’interno del proprio massacro, prende forza dal pensiero del dopo; un pensiero lieve eppure categorico annunciante il messaggio che non saremo noi a scomparire con il vento, non noi nella terra ma l’altro, gli altri in una conta che non vuole contare i simili. È la gioia della guerra che mente nel cuore pulsante dell’insperabile.

Allora la casa che Chrisitina guarda non è propriamente una casa, così come Christina non è propriamente una donna. Christina non è né arrivata né persa e la gioia truce e silenziosa che si è impossessata dei campi e dell’aria è la guerra nel suo tessuto trafitto.

… E avanza il sentimento dell’infigurabile che non ha una forma nell’orizzonte del domani ma ciò che il caso presenta consegnando il futuro a un surrogato dei possibili senza qualità.

 


 Painting by Andrew Wyeth | “Christina’s World” | 1948.

 

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