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Carucci | Kiss Trace

Elinor Carucci, il cui lavoro è stato raccolto nei precedenti e acclamati volumi “Closer” (2002-2009) e “Mother” (2013) continua l’esame immersivo e ravvicinato della propria vita nel volume intitolato “Midlife”. In questo progetto, Carucci mostra il proprio viaggio attraverso la maternità, il matrimonio, la malattia, l’amore, i legami famigliari e le trasformazioni generazionali, la quotidianità e la ciclicità degli eventi, ognuno con le proprie rivelazioni, i propri miracoli, le proprie delusioni. Un lavoro costruito sempre attraverso un incedere narrativo a volte brutale, distaccato, altre commovente, fragile, poetico.
Soffermarsi su ogni immagine, proseguire, rifermarsi è intraprendere un viaggio che attraversa il nostro mutare mentre siamo intenti a vivere. Cambiamo noi e cambiano le cose e le persone intorno a noi. Gli affetti provano a slabbrarsi, incedono verso altre strade che non possiamo controllare, ritornano diversi, ritornano a noi come una moltitudine dentro la nostra solitudine, una moltitudine di altri in cui noi facciamo parte. Ne facciamo parte come colui che sa che non gli è permesso di vedere quello su cui questo piccolo sipario si alza. Conta poco l’intensità della luce, lo stile della scenografia, perché ciò che accade sul fondo addossato dell’oscurità è ciò che si solleva e illumina un’unica scena: lo spazio della nostra consapevolezza.

Scorrere le pagine, guardare, ritornare all’inizio, osservare le pieghe della pelle, i capelli secchi e striati di bianco, incedere su quello sguardo, uno qualsiasi degli sguardi, la carne molle, l’accenno di un sorriso, l’assenza di un sorriso, il non tenerne conto, i dubbi e le negazioni, profondità e superficialità, lo stupore sopra un letto di neve. Ritornare a sfogliare lasciando come bussola solo il sangue fotografato, quella striscia rossa ogni volta diversa, ogni volta più comune, familiare, ogni volta meno dolorosa e più amicale, rarefatta e insistente, decisiva.
Perché se da un lato brilla la quotidianità, sull’altro lato della pagina, sul proprio risvolto, c’è un accumulo di materiale che ha il proprio senso nel sacrificio: il corpo teatrale che rende sacra la presenza, ossia la sua anima, la sua creazione, la sua gloria, il suo godimento, la sua sofferenza e la sua derelizione: la sua comparizione come segno fra i segni.
E tra tutte queste fotografie, una è per me il centro magnetico di questo cammino. Parlo di Kiss trace (p.39). Madre e figlio. Capelli bagnati come traccia di una placenta, le spalle leggermente in avanti, la schiena incurvata, una mano che lo sorregge dal mento come a bloccarlo, a sollevarlo da una morte, un bacio sulla guancia a sottolineare un’urgenza di ambiguità, di necessaria forza e protezione in uno spazio che non conosce il significato di questi termini e li spagina, vecchia merce per vecchie azioni. Non esiste più una parola, un testo per raccogliere i significati che li descrivono, le frasi che si dipanano e si perdono come fiumi. Il testo stesso è abbandonato, lasciato sul suo limite. Non si tratta di una caduta, non ci sono più né l’alto né il basso, il corpo non è precipitato, ma è sul proprio taglio, sul bordo esterno, estremo che niente richiude.

La madre tiene. La madre occlude. Segna con un bacio amore e possessione, reprime e lascia, blocca e accoglie, tutte dicotomie dell’amore quando flirta delicatamente con il proprio potere urtando e ferendo il nodo di forze che agiscono in ognuno di noi e che non si possono scacciare né con la razionalità né con la ragione né con una pratica di buoni gesti e buone intenzioni. Cos’è allora questa matassa, questo grumo che vizia e solleva come un’effrazione l’agire, il pensare, il reagire di questa madre che ci guarda e questo donarsi senza conoscere dono del figlio, il proprio concedersi tra le mani che lo imprigionano, che lo salvano, questo continuo affidarsi, credere fino allo sfinimento? Non è il perdono, ossia la messa in forma segreta della relazione amorosa, ma qualcosa che sempre si staglia su un orizzonte meraviglioso ed oscuro e che il tempo fa maceria e luce.
Ciò che fa di questa fotografia un evento da cui si irradia la completa narrativa del libro è il corpo.

Questo corpo, questo tratto, questa zona di questo corpo che mi tocca, tocca il mio corpo. Mi piace o non mi piace, mi contraria o no, mi attira o no, mi colpisce o mi lascia indifferente, mi eccita o mi sconvolge. Il corpo che è la cosa più lontana che mi viene dall’altro. Ciò che viene della venuta stessa dell’altro. E così fino al punto in cui si scopre che l’altro, gli altri, non sono nemmeno più le parole giuste ma soltanto corpi. Il mondo in cui io nasco, vivo, muoio, esisto.
I corpi che sono sempre nell’imminenza di un movimento, di una caduta, di un allontanamento.
Il corpo che se ne va portando con sé il proprio orizzonte, la propria massa sopra l’orizzonte, e che ritirandosi lascia questo spazio dentro di sé, al suo posto, e questo posto resta il suo, assolutamente intatto e assolutamente abbandonato. Questa spaziamento, questa partenza è la sua stessa intimità.

Allora “Midlife”, non è solamente l’anagrafica della vita o uno schedario a memoria di progettualità futura ma è l’immergersi nel significato dei corpi. Della presenza e della loro sottrazione. Della verità e della loro centralità. Perché come scrisse Nancy, i corpi non sono un “pieno”, uno spazio riempito. Sono spazio “aperto”, lo spazio che ancora e per sempre si può chiamare: luogo.

 


Cfr: Corpus; J.L. Nancy

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