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Anghilieri | Basta il solo ingegno?

Un gran numero di proverbi brianzoli pone l’accento sulle facoltà intellettive proprie dell’essere umano. Nella tradizione popolare, il termine “intelligenza” sta ad indicare – nell’accezione boccaccesca – l’ingegno, l’arguzia, la capacità generale dell’individuo di cogliere ed affrontare il mondo, sapendo sfruttarne appieno le potenzialità che offre. La Brianza, infatti, è una terra che ha saputo evolversi da agricola a prevalentemente industriale, costituendo nel tempo un modello di comunità territoriale capace di attraversare i periodi più bui attraverso l’acume, il talento di adattarsi ai cambiamenti e la resilienza. Tra i proverbi illustri che fotografano questa visione della realtà non si può non annoverare Chi non s’engegna, fa la tegna (lett. chi non si ingegna, ovvero chi resta con le mani in mano, fa la ragnatela), un modo per invitare i fanigòtt (i nullafacenti) a darsi da fare. Perché, il vero brianzolo non sa stare con le mani in mano e deve necessariamente mettere a frutto le risorse intellettuali di cui è in possesso. Non mancano detti in cui si denigra chi non è in grado di usare bene le capacità intellettive oppure vengono messi in ridicolo quanti danno prova di possedere poca intelligenza. Pronunciare la frase L’è indrée on cär de reff in güggiada, è umiliante per chi la riceve, in quanto indica un tizio dotato di scarso acume: il car sta a significare una gran quantità di roba, mentre reff rappresenta l’oggetto che si è infilato nella güggiada (da güggia, l’ago) che è sinonimo di fatto di poca intelligenza. Un soggetto bonaccione, ma un poco tonto, quindi, molto distante da una persona dotata di comunissima intelligenza e di un normale buon senso. C’è un altro detto simile, El ten a man i guggiad e el trà via i remissei, che sottolinea la pochezza di chi tiene in conto le sciocchezze, le inezie e getta via le cose importanti. Invece, il proverbio L’ha inventà el fumm de râs connota negativamente una persona dotata di poca saggezza, in grado solo di riportare informazioni note a tutti. Tecnicamente il “fumo di raso” è il particolato carbonioso, una polvere nera che si può ottenere come sottoprodotto della combustione incompleta di una qualsiasi sostanza organica. Questo fumo è comunemente conosciuto come fuliggine o nerofumo. Nella società di inizio Novecento, fino almeno alla diffusione dell’energia elettrica nelle città e nei borghi, se ne faceva un grande uso e il particolato si depositava ovunque battesse la fiamma di una lampada a olio. Era ovviamente un fatto noto e risaputo per quei tempi. Il proverbio vuole dunque indicare una qualsiasi persona che si dà delle arie, che crede di saperne più degli altri e, come si suole dire, “monta in cattedra”, facendo sfoggio magari di paroloni di cui però non conosce l’esatto significato.
C’è tuttavia un detto veramente significativo che riguarda la capacità tutta brianzola di “farsi da sé” attraverso l’intelligenza. Non è un luogo comune quando si racconta di brianzoli “casa e lavoro”, di grandi aziende che hanno preso il via da un’idea geniale, in spazi ristretti, spesso nel laboratorio accanto all’abitazione. Industrie che sono per gran parte ancora familiari da generazioni, grazie a imprenditori illuminati che hanno saputo investire garantendone la sopravvivenza nel tempo e lo sviluppo della propria comunità. L’espressione L’ha mangiàa la foeja è rivolta a quell’attività in auge decenni e decenni or sono che riguardava l’allevamento dei bachi da seta, tipica risorsa agricola lombarda e specialmente brianzola. Quanti hanno seguito le varie fasi di questo tipo di allevamento, conoscono bene il compiacimento e l’emozione che si prova, osservando tale prodigio della natura. Quando il baco mangia la foglia è indice di ottima nutrizione e permette al baco di dare avvio alla sua impresa meticolosa e ingegnosa che porta alla formazione del bozzolo. Chi l’ha mangiàa la foeja sta progredendo nella sua esistenza e acquista maggior valore. Pertanto rivolgersi a qualcuno, sottolineando che “ha mangiato la foglia”, sta ad indicare che costui ha ben capito la situazione che si sta sviluppando e quindi agirà saggiamente, evitando eventuali guai o tranelli e facendo di tutto per migliorarsi.
Lo sa bene Ignazio Cantù (1810-1877), fratello minore del più noto storico cattolico Cesare (1804-1895), figura singolare nella multiforme cultura lombarda del Risorgimento e dei primi anni dell’Unità, che, nelle sue Vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini narrate da Ignazio Cantù (opera edita a Milano in due volumi tra il 1836 ed il 1837), tratteggia bene questa capacità innata nell’animo brianzolo di servirsi con scaltrezza dell’intelligenza, cogliendo le potenzialità della vita quotidiana e sfruttandole a proprio vantaggio. Nella sua opera – in cui Ignazio, ancora giovanissimo, immagina una patria locale e ne indaga le radici – sono numerosi i riferimenti a tale prerogativa tutta lombarda e brianzola. Così ci descrive con dovizia di particolari i terrazzamenti, opere di grande ingegno della civiltà contadina, che rappresentano una delle più importanti memorie storiche del nostro territorio.
Piccole storie di uomini, architetti senza accademia, che per un’economia di sussistenza hanno addomesticato e scolpito un territorio, i cui versanti scoscesi non avrebbero consentito alcun tipo di coltivazione. I terrazzamenti sono patrimonio agricolo e paesaggistico e per tale ragione sono tutelati dalla legge che ne vieta lo spianamento.
L’uomo, nel corso dei secoli, ha saputo così coniugare l’intelligenza con la bellezza. Ignazio passa poi a tratteggiare con minuzia la lavorazione del baco da seta che porta i brianzoli a essere considerati maestri nell’allevamento dei filugelli (i bachi) e nella filatura della seta, tanto che i lavoratori venivano richiesti anche in altre province con salari molto vantaggiosi per quanti erano esperti dell’arte serica. Con “quindici giorni di gravi fatiche”, i contadini si garantivano un’importantissima entrata in contanti dopo le ristrettezze della stagione invernale. L’allevamento dei bachi e di produzione dei bozzoli, rappresentava un’attività molto importante in varie zone d’Italia e rappresentava la “maggior industria” dei contadini in tutto il territorio dei mandamenti di Lecco, di Merate – Brivio, di Missaglia, di Oggiono, nella parte rivierasca del mandamento di Bellano fino a Colico, come del resto nei mandamenti di Como, Asso, Cantù, Erba, fino ad altezze di quasi 700 metri sul livello del mare, sia sul monte di Brianza sia nel triangolo lariano.
Ignazio Cantù arriva poi a narrare lo sviluppo della prima industria sul territorio brianzolo che, nel corso del tempo, ha permesso al territorio di ricoprire un ruolo primario nel panorama economico italiano attraverso la creazione di comparti particolari in cui ha assunto il primato a livello nazionale. È il caso della produzione dei mobili, che ha comportato la nascita di una vera e propria cultura e di un’arte del mobile, che si è man mano radicata specialmente in Brianza. L’operosità e l’ingegno dei brianzoli hanno fatto sì che nel tempo la loro zona diventasse sede di attività artigianali e piccolo-industriali specializzate, per lo più, nella costruzione di mobili. Un sapere che oggi resiste e ha saputo trasformarsi da quel lontano 1777, periodo di costruzione della Villa Reale a Monza, quando arrivò in città un certo Giuseppe Maggiolini da Parabiago, capace di aprire una bottega dove si formarono i grandi artigiani del legno che cominciarono ad arredare le ville di delizia sorte nel frattempo in ogni comune brianzolo, sulle dolci colline dove l’aria al tempo era salubre. Il mobile industriale, l’oggetto di design, ha qui le sue radici.
Ciò che, dunque, Ignazio Cantù cerca di mettere in evidenza nella sua lunga e attenta analisi della storia brianzola è proprio questa capacità di sapersi trasformare e reinventare: menti acute e brillanti che hanno saputo costruirsi dal nulla, adattandosi al cambiamento. La cartina di tornasole delle sue parole sta nell’evoluzione che questa terra ha vissuto nel corso del Novecento. Se pensiamo a un distretto che oggi più rappresenta la Brianza, l’industria meccanica, ci rendiamo conto della veridicità delle parole del noto scrittore ottocentesco. Viti e bulloni brianzoli hanno fatto la storia, partendo spesso da una semplice intuizione: non possiamo non citare il caso Egidio Brugola che nel 1926 fonda a Lissone le Officine meccaniche che portano il suo nome. Quella chiave esagonale oggi è per tutti una “brugola”. Anche se le Officine Egidio Brugola hanno aperto anni fa uno stabilimento a Detroit, il quartier generale è ben ancorato a Lissone. La delocalizzazione non fa parte del DNA dei brianzoli che hanno una forte propensione all’export, sono sempre alla ricerca di nuovi mercati, ma restano ancorati alla propria terra. In Brianza le fabbriche restano sul territorio, anche perché qui si producono oggetti ad elevato valore aggiunto e ridotte dimensioni e solo in Brianza c’è quella catena di fornitori e quel saper fare tramandato da generazioni che tutti gli imprenditori lungimiranti sanno non essere il caso di cercare altrove. L’industria manifatturiera è la ricchezza di questa terra fatta di un tessuto di piccole e medie imprese che hanno contribuito a fare della Brianza la “locomotiva d’Italia”, uno dei motori industriali a livello europeo.
Aziende che hanno saputo resistere alla crisi del 2008, anzi, incredibilmente ci sono aziende “resilienti”, le cui performance sono migliorate proprio nel post-crisi. La Brianza ha superato anni bui, puntando con intelligenza sull’innovazione, sapendo gestire il ricambio generazionale all’interno delle aziende, combinando il manifatturiero con le nuove tecnologie.
E allora quali rischi corre questo immenso patrimonio? Per dirla con le parole di Carlo Cattaneo, il pericolo è quello di “fondare tutto sul proprio pronto ingegno”, fecondandolo poco “colla lettura”. Da qui la critica a quanti attribuivano poco peso al lavoro storiografico dell’illustre autore: «L’istoria particolare di questo territorio è un tributo che Ignazio Cantù rende alla piccola patria, ma nello stesso tempo non fa torto alla patria grande; perché l’attenzione delle moltitudini difficilmente può chiamarsi alle gravi istorie nazionali se non per la via di questi orgoglietti di municipio. E i Brianzoli fidenti nel pronto ingegno poco si curano di fecondarlo colla lettura; anzi poco si curano d’aver libri e librerie» [Annali Universali di Statistica, XLIX, 245]. Non basta dunque sapersi innovare, sfruttando le proprie capacità intellettive. Occorre coltivarle e per questo la lettura e lo studio devono accompagnare delle buone doti intellettuali, arricchendole di sempre nuovi saperi. È necessario non dimenticare che l’intelletto, qualora non venga coltivato, perde la sua brillantezza.
Se all’epoca di Cattaneo e Cantù, pochi brianzoli sembravano esserne convinti, nell’epoca successiva l’importanza dello studio viene recepita in maniera più marcata. Lo spirito di perfezionamento e la voglia di creare una propria tradizione hanno determinato il sorgere, ad esempio, di vere e proprie scuole di formazione professionale del legno e della meccanica. Così, per citare un celebre caso, nel 1919, un secolo fa, Vittorio Emanuele III firmò un decreto di cessione della Villa Reale di Monza ai comuni di Monza e Milano, permettendo la nascita nel 1922, nell’ala meridionale della reggia, dell’Istituto Superiore delle Industrie Artistiche. L’anno successivo si tenne la prima Biennale d’arte che proseguì per quattro edizioni fino al 1930 per poi diventare Triennale e trasferirsi a Milano, dando vita a quell’evento che è padre della settimana del Design di oggi. Il palcoscenico è milanese, ma il saper fare è nelle aziende brianzole, capaci di richiamare i grandi nomi del design o di dare forma con l’abilità delle proprie maestranze a quelle idee partorite dalle teste dei creativi.
È fondamentale che ancora oggi si continui ad imparare la lezione di Cantù: coniugare intelletto e studio è la carta vincente per far crescere la società ed è bene che la grande opera storiografica di Ignazio venga custodita. Le nuove tecniche di divulgazione hanno l’obbligo morale di avvicinarla al pubblico sempre più colto e curioso dei ricercatori e degli appassionati di storia, ma anche di chi è convinto che non basti far leva solo sulla propria intelligenza, ma sia necessario sostenerla e nutrirla. La lettura di quest’opera permetterà a un popolo, come quello brianzolo – che ha saputo prima immaginare la nuova patria ed indagarne le profonde radici e poi, una volta conseguita l’unificazione, impegnarsi con intelligenza e studio per guidarne la crescita – di comprendere quanto sia necessario dedicarsi con ancora maggiore vigore alla propria crescita morale e spirituale attraverso l’amore e la passione per il sapere e la cultura, soli strumenti in grado di arricchire le facoltà intellettuali di ciascuno di noi.

 


Foto di Chris Lawton

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