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Chachkhiani | Dead lions

Biennale d’arte di Venezia, 2017, Vajiko Chachkhiani smonta una piccola casa in legno proveniente dalle campagne della Georgia e la ricrea nel padiglione georgiano. La casa è completa di mobili, quadri e altri oggetti quotidiani di una vita semplice. All’interno della casa un sistema di irrigazione autonomo simula una pioggia continua. Una fioca luce gialla illumina le stanze spoglie, visibili solo attraverso le finestre parzialmente schermate da tende che invitano lo spettatore ad accostarsi con quella tipica cautela verso gli oggetti sconosciuti, verso le cose misteriose che parlano nello spazio magico dei segreti.
Durante il corso dei sei mesi della mostra, l’irrigazione costante cambierà l’interno: alcuni oggetti si romperanno e il muschio crescerà sopra di loro, il legno si incurverà e in alcuni punti si spezzerà. A differenza degli interni, l’esterno della casa rimarrà lo stesso, così che l’installazione creerà una propria narrazione nel tempo seguendo una sorta di drammaturgia naturale che induce a meditare le implicazioni della resistenza e del cambiamento.  Per Chachkhiani l’opera è un omaggio allo spirito di adattamento che il popolo georgiano ha dimostrato nel corso dei secoli fronteggiando le invasioni musulmane, quella zarista, la dittatura sovietica e la difficile transizione verso la democrazia.
Il titolo dell’opera “Living dog among dead lions” è una citazione della Bibbia (Ecclesiaste 9:4) e si riferisce alle persone che si comportano in modo aggressivo come leoni contrapposte a quelle introverse e umili.
Questi sono i dati. Eppure, nonostante gli anni passati, il segreto di questa casa continua a sfiorarmi. Se un’opera è la disciplina attorno al proprio nucleo e questo nucleo un infinito diorama di narrazioni che si perdono nel buio della profondità, perché dovrebbe avere dei fatti al suo epicentro come motore scatenante? Non sono forse le emozioni che colorano per prime i nostri pensieri quando ancora sono lontani dal pianeta, prima che si scontrino con la massa della terra che calchiamo o naufraghino come una nave ormai lasciata a se stessa nella tempesta, priva di speranza?

Cos’è allora quest’acqua che cola dal tetto, che rinforza, che cade gonfiando legni e tappezzerie portandoli alla distruzione? Che suona sui piatti o sugli angoli dei mobili creando una colonna sonora nata sotto l’unico seme dell’insistenza e con l’unico ritmo della percussione che si perde in brevi note come un sasso che rimbalza caotico tra il fogliame e poi giù nella scarpata? Cos’è questa triade che sovverte l’armonia, pietra angolare della teoria musicale fino a Schoenberg? Che cos’è che realmente quest’acqua rivela se non una perpetua manifestazione che non illumina mai quel che dice?

Quest’acqua è la trasgressione, ciò che costringe a rendere visibile la legge che la provoca e la mette spalle al muro spingendola risolutamente sempre più lontano verso il fuori.

La trasgressione viola il divieto tentando di attrarre la legge verso di sé ma di fatto si lascia sempre attrarre dal ritrarsi essenziale della legge; essa avanza ostinatamente nell’apertura d’una invisibilità in cui non trionfa mai; “tenta di far apparire la legge per poterla venerare e abbagliare col suo volto luminoso; essa non fa nient’altro che rinforzarla nella sua debolezza -in quella leggerezza di notte che è la sua invincibile e impalpabile sostanza. La legge è quell’ombra verso la quale necessariamente avanza ogni gesto nella misura in cui essa è l’ombra stessa del gesto che avanza.”

Quest’acqua che si azzarda all’interno di un chiuso, che trova la strada per penetrare come un ladro nel luogo del cuore e con un’effrazione scivola tra gli affetti più cari per colpirli uno ad uno, per sottrarli riducendoli a cosa ormai morta, inservibile, questa trasgressione nell’ordine della legge, a mano a mano che trasforme le cose, marcendole, muta la trasgressione in un soffio che la fa vibrare nel ticchettio incessante del proprio cadere. E più si gonfia più diventa marea, cancella la propria azione originale in un segreto posseduto da un anonimato del linguaggio, attraversa la propria pazienza, si appoggia a quel coraggio che non le è mai mancato, quel coraggio strano e familiare che la getta in una forza tutta nuova.
Potremmo dire che tradisce la propria destinazione e tradisce anche chi, come noi, non si aspetta mutevolezza se non verso ciò a cui già è preparato. Allora un velo scuro cade sopra i nostri occhi come se fossimo stati imbrogliati e una mano di vernice copre lo stupore che ci ha spinto a guardare dalle finestre, a scostare la tenda attraverso il vetro rotto, una mano di vernice copre la ferita
della nostra fiducia infranta.
Nel momento del tradimento le nostre perle si trasformano in sassi e i nostri valori più intimi in rozze spiegazioni materialistiche con quell’ottusità tipica di chi continua a ripetere che le cose più belle erano le più brutte e comportandoci in quel modo sordido attraverso il quale attribuiamo all’altro le nostre mancanze e a giustificare le nostre azioni con un sistema di valori che non ci appartiene. Così, mentre ce ne andiamo, siamo consegnati a un nemico interno. La nostra fiducia tradita ci consegna a una sofferenza inautentica. Rifiutando di essere ciò che siamo, imbrogliandoci con giustificazioni ed elusioni. Lo stupore è terminato. Quell’acqua che scende sarà un teatro vuoto di significati che la parola ha sbranato.

La casa non cadrà. Verrà smontata. Finirà il proprio percorso narrativo accatastata da qualche parte. Lo spettacolo finirà. Ma l’azione dell’acqua non tornerà più ad essere ciò che era, acqua che bagna, acqua che cade. Continuerà ad essere l’azione temeraria del tradimento che ci ha portato ad essere, consapevolmente o inconsapevolmente, il significato vivo dell’opera dove quel coraggio strano e familiare continuerà a irrompere nella nostra interiorità, rivoltandola, facendo sorgere al nostro fianco la figura strana e ambigua della scelta.


 


 

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