EDITORIAL VOLUME II
Scrivere su Josef Fritzl è franare sulle parole. Gettare su ogni pensiero il sospetto di una fuga intenzionale. Nell’attimo in cui si lascia la storia conosciuta e si appoggia la penna sul foglio o le dita toccano i tasti, qualcosa sempre trema e si blocca, si arresta, cede nella propria corsa verso il senso, si frantuma in una irredimibile disperazione. Forse perché ci si misura non solo con l’eccesso ma anche con un intimo così categorico da far risultare ogni intenzione maliziosa e ogni sguardo come l’inopportuna azione del voyeur. Se qualcosa resiste, divincolandosi con estrema noncuranza, riuscendo ad aprire qualche porta, qualche zona del nostro eccesso che possa dialogare tangenzialmente con quell’eccesso, ancora scivola via delle mani appena iniziamo a immaginare i rumori delle bocche, l’incedere furioso del sesso. È come se la parola avesse paura di rimanere impigliata nella rete oscura di un dolore apicale e si ritirasse. E non si ritira solamente per quella verità comune e isolata scritta da Lévinas: “Osceno, l’amore che fanno gli altri”, ma inevitabilmente a causa di quel reiterato braccare il diritto inalienabile alla vita, alla protezione, all’incondizionato amore genitoriale che Josef squarcia attraverso la segregazione e l’abbattimento, investendo tutti i corpi come fossero già cadaveri.
Chi si distribuisce dietro le parole, ha cercato vie complanari per raccontare e capire questo dolore e questo male fino all’incendio di sé. Un resto che resta a guardare quel tutto. Un resto e un nulla che decidono di non misurarsi né ingaggiare duelli con quel tutto.
Chi disegna, invece, è più diretto. Probabilmente perché il disegno comunica in modo più sincero con la possessione del cuore attraverso le linee che il gesto della mano via via compone, riuscendo così a inabissarsi nella crudeltà mantenendosi sempre stupefatto. Forse il disegno è la chiarezza che illumina e svela l’intrico sociale, trappola in cui spesso sono catturate le parole, offrendoci risvolti più sottili, delle micro trafitture che ci fanno sanguinare a poco a poco. Ecco allora tratti che liberano un’incredibile energia nella somma dell’orrore fino a farcelo intravedere come proficuo, come qualcosa di urgente che lambisce il bene (Gemma); parti isolate e dettagliate di un corpo, continuamente ripetute come fossero il bagliore di ciò che è stato squassato, marcato, reso semplice oggetto, ma un oggetto che ancora resiste ricoperto dalla propria grazia (Chernyavska); chi transita accanto alla paura quasi con gli occhi bendati per poter sprofondare nella segregazione, nell’interstizio criminale della coercizione (Criniti); o chi affida a un perimetro sottile la cubatura dell’intera figura, anamorfosi di un palcoscenico velato e aggirante (Spinelli). Ancora: chi ci offre uno spazio accumulato, rigonfio, che perde ogni delimitazione. Un’esondazione di oggetti, di anfratti e di ricordi che non proteggono più da nulla (Klotz) per giungere infine a un volto, materico e carnale, imponente e sottile, il contrasto tra mediato e immediato, un entrare nel vedere che mostra la figura nel modo in cui ci guarda (Illera). E poi le immagini di Beast e di Viggiano nella loro chiarità, inoppugnabili fino al punto di soppiantare la violenza inferta per creare una pista secondaria, una via di fuga nell’intrico dello stesso nero, conducendoci nell’epopea di un racconto, il margine celato del contemporaneo. Qui dentro allora, nell’ingaggio alla storia di Josef Fritzl, nel viaggio circospetto all’interno di un male disperato e di un’innocenza altrettanto disperata, infibulata e scacciata dalla propria femminilità, in fin dei conti, è in atto una sfida che vira sempre verso il plagio. Perché l’inaccostabile non ha nessuno spazio né deserto di presenza. Non ha miraggi né il giubilo nell’altezza della catarsi. Ha un impossibile che per non morire si piega su se stesso, estraneo e successivo, dicendo ciò di cui è capace oltre il proprio cuore, il proprio immaginabile. Fallendo, sempre. Perché il fallire è l’unico atto di giustizia, l’unica azione tenace per riaffermare un’equità che lambisca l’interrogazione anteriore ad ogni domanda, la gioia incomprensibile e sfuggente del bene.