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Gullotta | Come un fratello

Gli occhi si rivoltavano contro la notte e il buio faticava ad arrivare. Il fondo giallo del cielo delle sei di sera intorpidiva tutti gli alberi, tutte le foglie, di fronte alle finestre dei reparti. L’uomo sentiva un carrello stridere lungo i corridoi, senza grazia, rumore di piatti e tovagliette e voci professionali monotone e sicure.
Di colpo un infermiere con un fazzoletto azzurro in testa entrò nella sua camera.
– Ha avuto un arresto cardiaco – disse – È stato in coma farmacologico –
“È stato in coma” ripeté, ma il signor Gionata non gli aveva chiesto proprio niente, nulla di nulla.
Per lui la malattia era principalmente il nemico numero uno degli affari, specialmente per i dipendenti. Gionata era un uomo ricco; possedeva numerosi negozi e sapeva dove e quando investire.
L’infermiere era molto ridicolo. La sua operosità risultava pietosa. Gionata sentiva le labbra secche e pesanti, aveva la nausea, tutta la sua testa pesava come quando ti vuoi svegliare ma una terribile medicina ti abbatte. Aveva vaneggiato cose strane: un kiwi davanti a una finestra ghiacciata ma piena di sole; un’ enorme ruga sulla fronte che si apriva a ventaglio; e anche un aldilà molto stereotipato – gli angeli con le ali, i demoni con le corna – dove l’Angelo Guardiano lo assegnava all’Inferno, incontrando da parte sua diverse resistenze.
L’infermiere controllò i suoi parametri e se ne andò senza essere servito a nulla.
Gionata dormì un lungo sonno senza sogni molto realistico. Gli faceva male la schiena e il sedere. Nella notte avevano portato una donna nella sua stanza, verso le undici e mezza, ma in ospedale si dorme presto e Gionata dormiva già da un pezzo.
Alle cinque l’uomo iniziò a svegliarsi; la luna illuminava in modo asimmetrico il volto della donna e la lucina del neon in alto era un terzo occhio misterioso.
Lei non era anziana, era solo consumata. Probabilmente più giovane di lui, di parecchio. Non dormiva e guardava fisso ma in modo intelligente come se sapesse dove guardare, cosa guardare, e fosse solo stupita di trovarsi lì. Gionata pensò che non valesse la pena di fare un verso, un rumore con la bocca, perché raramente, molto raramente valeva la pena di dire qualcosa.
Quando la mattina gli infermieri spalancarono la sua porta in modo sguaiato, Gionata notò che la sua compagna di stanza non c’era. Il suo letto bianco rifletteva la luce bianca. Fece qualche tentativo per parlare; non è che il suo cervello funzionasse tanto bene, si vedeva che era stato spento per un po’. Gli infermieri gli risposero, cercarono di esaudire i suoi bisogni, nei limiti del possibile, ma era strano, era come se lo trapassassero con cattiveria inaudita.
Dopo alcune ore, la donna tornò. Indossava un pigiama di Paperino, della Disney, quelli per adulti.
Il medico che la accompagnava fece cenno all’infermiera di deporla sul letto dalla sedia a rotelle, poi spiattellò la cartella clinica sul lenzuolo rigidissimo. Gionata, che aveva un’ottima vista, riusciva a notare la radiografia di un addome con alcuni tondi neri circolari al suo interno. Cisti, le catalogò. “E poi cosa ce ne facciamo qui di un addome malato, in cardiologia?” Dopotutto, non era normale: lui stesso non doveva forse trovarsi in Rianimazione o in un reparto di Cardiologia Intensiva?
-…E confermando la mia diagnosi, resterà qui solo per pochi giorni per monitorare il suo cuore e le sue funzionalità, ma io le consiglio comunque di approfondire QUESTA questione. – disse il cardiologo battendo con la mano a zoccolo sulla radiografia. Poi se ne andò. La donna stava seduta sul letto con la schiena dritta come una ballerina. Guardò Gionata in modo tutto sommato amichevole, incoraggiante.
– Ho avuto un collasso. – Non sorrideva ma nemmeno era triste.
Gionata fece un grugnito, non riuscendo a padroneggiare il linguaggio alla perfezione.
– A causa dello stress. – precisò lei raccogliendo in una coda i capelli.
-L-lei c-che l-lavoro fa?- tentò di socializzare Gionata, credendo che il lavoro fosse la causa dello stress.
-La cuoca in un ristorante – rispose, e accese il televisore;
– Oggi pomeriggio verrà mio marito con mia figlia – aggiunse, in modo leggermente imperioso, come se Gionata avesse dovuto pulire la stanza, o preparare la tavola.
Quel pomeriggio arrivò veramente in visita un uomo. Era alto, magrissimo e molto scuro. Le braccia pelosissime si intravedevano sotto le maniche del pullover e davano l’idea del rampicante che si agita sotto la palude.
Rimase per quasi un’ora a parlare fitto fitto al capezzale della giovane; ogni tanto si sentiva qualche risatina, degli sbuffi come quando si sputa, a volte parevano discorsi molto seri e complessi con diverse parole. Gionata guardava il cellulare e ogni tanto chiudeva gli occhi.
Ad un certo punto, l’uomo uscì per andare in bagno, lo disse ad alta voce, la notizia del giorno. Gionata stanco di stare disteso provò a sedersi sul letto e si accorse che gli arti gli facevano molto male ma non erano poi così deboli.
– Giancarlo non vuole usare il bagno della stanza per ragioni di igiene. – esclamò improvvisamente la donna. Piano piano, trascinandosi lungo i muri, riuscì a uscire dalla camera. Davvero poteva camminare?
Le pareti erano tre arancio e una giallo limone; tutte le altre porte stavano socchiuse. I neon ricordavano allegri una festa di invisibili; le palpebre allora gli tremarono colpite da quella luce oscena. Un’infermiera uscì da un ambulatorio vuoto per dirigersi verso un altro altrettanto vuoto. Un medico prendeva il caffè alla macchinetta e la macchinetta continuò a ronzare anche quando lui non c’era più. Il marito della donna malata uscì dal bagno, e si avvicinò al distributore per comprare una merendina; la strinse tra le dita scheletriche. Poi – notò curiosamente Gionata – egli si avvicinò all’uscita di sicurezza da dove era sbucata l’infermiera, la porta allarmata si scostò e a Gionata sembrò di intravedere una manina piccola e cicciotta afferrare la merendina.
– Domani dimetteranno Martina – disse mentre Gionata si lasciava scivolare su una sedia. La testa gli girava, le orecchie gli fischiavano per via della pressione. – Mia moglie Martina – continuò – sta bene e non può permettersi di fare “una vacanza”. Fa la cuoca ma il ristorante è nostro. Invece lei… – si interruppe come per educazione
– Invece lei dovrà stare qui ancora per un po’, credo. Ma è giusto così, no? Va bene così. Meglio riposarsi nel suo caso, non fare niente. – Gionata lo sentiva, il non fare niente, la cosa più amata, la più languida.
Dalla sedia su cui era crollato poteva vedere Martina, la sua compagna di stanza, alzata, che riempiva il borsone per mettersi avanti. Era così pulita, così rosa. La camicia bianca si confondeva col collo. Era così certa e mortale, mentre l’uomo…l’uomo era sporco ed eterno.
Pensò a loro come a due bambini.
Lei, i dentini di sopra un po’ in avanti, un mezzo sorriso, decisamente proiettata verso una immaginifica esperienza; lui con la stessa speranza ma con gli occhi cupi come verdi bottiglie rotte in mezzo alla strada, improvvisamente profondi, di colpo superficiali.
– Lei quanti anni ha se posso chiederle? Secondo me più o meno la mia età ma li porta bene – commentò il marito della donna.
– 54 – rispose Gionata
– Potremmo essere fratelli. Martina anche, potrebbe essere sua sorella minore –
Gionata sempre più provato dal mal di testa vide la donna con la coda dell’occhio piegarsi, aprire il portafoglio e portare alla bocca qualcosa. Gli parevano banconote, anche se sembrava assurdo. La vide masticare e deglutire. Si voltò di scatto per guardare Giancarlo, ma lui se ne stava già andando.
Salutata con un bacio la moglie, avanzò con sicurezza fino alla porta allarmata e sparì lungo le scale.
E Gionata, Gionata lo seguiva.
Sotto la scalinata danzavano le loro piccole teste; scorse su una barella un coda di capelli castani rapida come un fiore che si riproduce. All’uscita posteriore un mendicante fumava una sigaretta preparata da lui. “Tornerò” gli disse Gionata.
Cercò nel parcheggio la sua Mercedes-Benz Classe G e mise in moto il motore. Una noia mortale e sarcastica aveva d’improvviso distribuito la stessa importanza su tutte le cose, lo stesso rosso umido fumo.
Era molto freddo, ma lungo la strada Gionata si tolse il maglione, poi la maglia leggera del pigiama. Si spogliò di tutto e in mutande alla guida attraversò rapidamente la città, dirigendosi verso i boschi in collina.
Lodato sii o mio Signore, per sorella luna e le stelle: in cielo le hai create, lucenti, preziose e belle.
Proveniva da una famiglia davvero religiosa, mentre lui era un sincero ipocrita.
Tuttavia, ecco i passanti, a branchi di stelle buone e silenziose, come nell’assolo de Le fiamme di Parigi quando Philippe piomba con virilità sul palco con immensi salti, mentre i marsigliesi festeggiano, e i nobili annacquati precipitano stretti nelle loro dimore.
Nel punto in cui incominciava il sentiero, Gionata era pieno di amore. Le creature le riconosceva, la sua anima stava fiorendo? Sentì il verso della civetta, i fruscii. Il ticchettìo del legno. Il buio era un ventre caldo e promettente.
Iniziò a entrare nel bosco, e subito si ferì con il rovo dell’albero delle more.
Era fermo, ma camminava.
Non lontano, il fracasso dei veicoli sulla Superstrada; là, Sorella Desolazione e Sorella Morte cavalcavano le loro fiere, ma era notte e di notte nulla fa paura perché non esistono le immagini.
Sta forse dormendo? Sta forse dormendo in vita?
Il futuro si affacciava come un verde giocattolo. Una volta ero sposata. Ma mio marito mi sparò e allora io sparai a lui.
Ed ecco che si faceva avanti nel cielo il meno definitivo dei colori.


Photo by Andrew Seaman

 

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