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Gullotta | Due pesi e due misure

Il signor Freddo aveva deciso di non andare dal dentista.
Si trovava in vacanza in una località di mare incastrata fra costole di roccia che si affacciavano sull’acqua.
Paolo Freddo era un ingegnere, sposato con Susanna, e aveva due figli. Abitava in via Pascoli in un ampio appartamento con giardino; non faceva nulla di particolare quando non era al lavoro.
Egli nutriva grande fiducia nella Natura, che per prima aveva costruito tutto ciò che si poteva vedere e toccare, era stata il primo ingegnere.
Così, non era voluto andare dal dentista. Aveva un incisivo cariato che gli faceva male, già da quattro giorni, e la moglie aveva insistito e insistito perché si recasse nello studio dentistico del paese per farselo curare. Poi c’erano forse le otturazioni da risistemare, il tartaro da controllare…Il signor Freddo mise un vecchio portafoglio di pelle in tasca, solo quello, e all’ultimo momento, senza nemmeno salutare la moglie, si buttò sulle spalle un maglioncino. Non era caldo affatto, e stava calando la sera.
Saltò in macchina galvanizzato al pensiero del piccolo inganno a cui stava sottoponendo i suoi familiari. “Dirò che la carie era superficiale” pensò eccitato “tanto superficiale che per ripulirla non c’è stato neppure bisogno dell’anestesia”. Ridacchiò fra sé. Era come se stesse infrangendo delle regole, ma quali? Era adulto, era libero. L’unica cosa che poteva provare a forzare era il destino, o la sua volontà.
Il signor Freddo arrivò per sicurezza fino allo studio del dentista, per assicurarsi che la moglie e i figli non lo avessero seguito. Magari volevano fare una passeggiata. Talvolta, semplicemente, non si fidavano del tutto di lui.
Nel centro della cittadina, dove troneggiava una brutta fontana a forma di moneta su un piedistallo, c’era un via vai di adolescenti; le gelaterie erano piene di sudore, bambini e fronti arrossate. Alcune donne obbligavano i bambini a mangiare; i bambini nel pieno del sole sembravano grasse lucertole.
Decise allora di guidare fuori città, verso la campagna. Dopo un po’ gli venne voglia di affacciarsi al finestrino (Susanna non voleva mai che lo abbassasse completamente, un po’ andava bene, ma non completamente), e inspirò l’odore di erba falciata e fumo. C’era qualche falò, in lontananza.
Fece una curva brusca, e un bel po’ di polvere della strada gli schizzò in faccia, gli fece pizzicare le narici. Starnutì, e dopo si sentì bene. Straordinariamente bene.
Il velo di polvere giallastra doveva avergli annebbiato il cervello, perché non riusciva a pensare a nulla di serio. Avrebbe voluto fermarsi in un qualsiasi punto della strada, e scendere dall’auto per guardare un paesaggio perfetto. Perché quello era un paesaggio perfetto.
Il paese che spuntava come una lentiggine scura…l’aria serale che dopo le dieci diventava così gelida da avere una consistenza quasi cristallina…sì, lì dieci anni prima aveva costruito un ponte. Un ponte progettato da lui, uno dei suoi primi lavori.
Decise di scendere. La strada era finita.
Di fronte a lui, nascosti da fronde fitte e sterpi, c’erano due campi da tennis abbandonati, protetti da una rete metallica; in basso la rete era costellata da buchi, e accanto ad ogni buco era posizionata una ciotola per gatti.
Paolo non ricordava affatto questi campi. Un gatto miagolava a due tre metri di distanza. Tuttavia, osservò dovunque, scandagliò con gli occhi il buio che cresceva di minuto in minuto, senza vedere nulla. Si era dimenticato di indossare il maglione e aveva freddo. Capiva che il verso proveniva dai campi da tennis, che però erano immobili, cupi e inesorabilmente piatti, come deserti recintati.
Per un attimo, Paolo odiò la loro fredda geometria.
Pozze fluttuanti allagavano il boschetto, e dietro al buio c’era il nulla. Il nulla è l’estremo appiglio per chi ha paura.
Paolo si domandò perché volesse vedere il ponte ora che il buio gli avrebbe impedito di distinguerne con precisione i contorni. Fece ricadere le braccia lungo i fianchi. Non guardò più, tutto perse interesse e si afflosciò intorno a lui come una pallina che smette di rimbalzare all’improvviso.
Il gatto continuava a miagolare.
Voleva tornarsene a casa, ma, con sua sorpresa, capì che non se ne sarebbe andato finché il gatto non fosse uscito allo scoperto; le ciotole erano vuote e umide, e lui sicuramente aveva fame, e forse anche paura. Appoggiò pesantemente la schiena contro il tronco di un albero, e la testa gli ricadde in avanti. La corteccia gli raschiava la pelle; non era rilassato. La sua mente girava a vuoto. Continuava a fissare le ciotole, la loro perfetta circolarità, ed esse ruotavano ruotavano…Paolo credette di stare per sentirsi male.
Poi però si riprese, e si rese contò di dover solamente fare pipì. Andò a pisciare e nel frattempo compariva un luna molto giovane sopra di lui che lo fissava.
Si diresse ondeggiando per la nausea verso la sua auto, voleva recuperare un pacchetto di fazzolettini per pulirsi. Lasciò la portiera aperta, e il gatto miagolava ancora, più lontano.

Paolo non era superstizioso, ma per come erano andate le cose quella sera, poteva avvertire intorno a sé una specie di rete invisibile che lo stringeva, e lo liberava a suo piacimento. Forse era quello che si chiamava caso, destino, ed esso non era affatto cieco. Ignoto ai più, certo, ma non imparziale. Esso utilizzava sempre due pesi e due misure.

Il signor Freddo prese il cellulare e provò a chiamare Susanna e i figli; decise che se avessero risposto sarebbe tornato all’albergo. Aspettò a lungo, ma nessuno rispose.
Ora doveva tornare? Paolo si vergognò della sua debolezza.
– Pronto, Vigili del Fuoco? – rispose una voce professionale. Paolo rabbrividì e il telefono gli scivolò dalla mano finendo nella terra; lo raccolse male e si sporcò tutte le unghie.
– Sono un turista, mi trovo in una specie di bosco con due campi da tennis pieni di ciotole per gatti, a pochi chilometri dal paese XXX”
– Ciotole per gatti? C’è un rifugio? – commentò il pompiere annoiato. No, no, si affrettò a smentire, c’è un solo gatto, forse tanti gattini, ma certamente uno di loro è in pessime condizioni, miagola disperatamente, non ha mangiato, potrebbe buttarsi sulla strada…
– Come fa a sapere che non ha mangiato? – Paolo non rispose. Voleva solo lasciarsi andare – Perché non lo porta lei al paese? Lì c’è un veterinario. In ogni caso non possiamo farci nulla, è compito della sezione locale dell’ENPA occuparsene. Se vuole le posso dare il numero, ma a quest’ora non c’è nessuno. Le consiglio di occuparsene lei. Lo trovi, quel gatto, e se lo porti a casa. –
Gli disse un numero, ma a Paolo non interessava. Invece, voleva sapere un’altra cosa da quella voce calma e metodica:
– In questa località c’è un ponte per caso? –
Non aveva alcuna debolezza, doveva ricordarselo.
– Sì. Ma è crollato. –
– Quando? – sibilò Paolo. Non voleva sibilare, ma era come se la gola si stesse frantumando in tanti piccoli filamenti.
– Cinque sei anni fa. –
Il signor Freddo sentì salirgli un acido disgusto per quel vigile del fuoco, per quel gatto che forse aveva una propria vita libera e felice aldilà della penosa pietà e preoccupazione degli esseri umani.
Salì in auto sbattendo con rabbia la portiera; accese il motore e la radio si mise a gracchiare una pubblicità “Mamma portami alla festa del Centro Commerciale!”-
Le luci alogene lampeggiarono, e le radici degli alberi imbevute di quella terrea luminosità apparvero come corpi insepolti.
L’auto partì, ma a un tratto si sentì un tonfo attutito, un piccolo botto. Tung.
Paolo lo sentì appena, scese a controllare; potevano esserci danni, una ruota sgonfia ad esempio. Esaminò i due fianchi dell’automobile, ma sembravano indenni.
Passò sul retro, era tutto a posto. Si sporse anche sul cofano per controllare il motore, guardò ancora più in basso, e allora vide una piccola pozza di sangue nerastro che si allargava sotto il suo piede.
Fortunatamente, la creatura non aveva perso molto sangue. Paolo la sollevò alla luce, utilizzando come guanti due fazzoletti di carta, e la osservò con attenzione e affetto.
Era un gatto. Non poteva essere però quel gatto.
In ogni caso, era solo. Nessuno poteva disprezzarlo, o accusarlo, compatirlo o avere paura di lui.
Voleva tornare indietro, ma forse aveva ucciso un animale. Doveva comunque stare con lui, aiutarlo per quanto poteva. Questa volta era necessario.
Accarezzò il corpicino che tremolava appena. Era ancora vivo, c’era speranza, o si trattava di un riflesso incondizionato?
Sembrava che un alone di tranquillità, non immota ma vivace, gli scompigliasse il pelo, come brezza serale.

 


 

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