Goffredo | Canto all’impermanenza
CANTO ALL’IMPERMANENZA
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La mia strada è sola.
Sola è la mia strada.
Sola è la strada. Sola
non vi è altra strada.
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Che ho da dirti.
Quasi niente.
Che avevo da dirti.
Mi sono distratto.
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Qui non c’è nessuno.
Urlo ma non c’è eco.
Nessuno c’è e prego.
Fuori e qui, dove siete?
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Il viso di questa età
è quello di un mugnaio
con una maglietta bianca
e un pantaloncino corto.
Alle quindici mi sciacquo
la faccia. Non voglio
dormire. Ho caldo.
La tua e-mail non arriva.
Soffoco. Gli occhi sono
piccoli come i tuoi capezzoli
al mattino. È come
un’ombra senza ricordo.
Le carte sbiadite.
Una cinghia contro
il portone che batte.
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Qualcuno bussa alla porta?
Nessuno bussa alla porta.
Qualcuno ha voglia di bussare
alla porta? Nessuno ha voglia
di bussare alla porta.
Allora nessuno busserà?
Nessuno nessuno arriverà.
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Se scendo le scale mi accorgo
che scendo le scale. E non so
perché dovrei accorgermene.
Non c’è una ringhiera in questo
scendere le scale. Forse,
la vertigine di pensare
di farlo. E farlo, perché
è imprudente farlo.
Giacché è pur sempre vero:
“scendere le scale”. È vero.
Un po’ è l’abisso scendere
le scale. Forse, a ogni piolo
non esserci in fondo
la rosa di Santa Rita. O.
Non esserci forse nessuna rosa
e neppure il gradino.
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Non basta il mio amore per spiegarti.
Non bastano tutti questi anni.
Se l’hai visto tu ne abbiamo le prove:
io sono proprio un impostore.
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Il sole freddo se ne va.
Un intimo pensiero mi culla.
Si ama e più si ama.
E’ non è nessuna cosa.
Rara pianta e intera.
Solo lo sguardo. Solo
lo sguardo. Euridice.
Da che parte ne usciremo:
temo neppure nell’aldilà.
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Guardo il giardino.
Sprofondo nel dileggio.
Dammi la mano
O ’Attār.
Arcangelo
degli uccelli innamorato.
Tienimi fra le cose
e le ossa vuote.
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Cosa posso dirti ancora:
che muoio se sono solo?
Il mondo passa dalle tue labbra.
Ma che vuol dire?
Temo non capirai
se neppure io capisco.
Perché in fondo è amore che ti chiedo.
Sembrarti come siamo.
Allora di che parlo?
Forse una tempesta di notte
il vento freddo e forte
io che esco fuori a cercare.
A cercare non so cosa.
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Le bare messe in fila
come barattoli vuoti.
La vita che pesa sugli occhi
dovunque l’ombra lacera
delle voci, gli uccelli
più leggeri dell’ombra
come un male impreciso
e feroce.
Un secchio
rovesciato che non lascia
scampo, al bivio gli imperi
che distruggono le bambole
dietro un funerale.
L’ora di un futuro passato
che sfocia fra i cerri e i frassini.
Io-Dio e tutta questa morte
violenta che dice addio.
Te me dentro.
Rilucenza
senza riva, senza Iddio.
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E così il mondo? E’ così che deve
soccombere: senza speranza?
Allora che rimane? Domani l’ultima
scena: l’impiccato a una croce
che ci crede. Un sottilissimo Dio che
precipita. Non so più che pensare.
Non ho altre prove. Manca il fiato
per spiegare. Per questo non so più
dirlo. Solo a crederlo è possibile.
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Che sono innamorato
questo so, tutto il giorno
di un albero, di un prato
di un legno secco
di un paio d’occhi.
Sono come sono: il peggiore
degli impostori.
Che guaio svegliarsi
un mattino felice
a partire dalle tue labbra fiorite.
Che succede e non succede.
Che ne so.
È questo il punto dell’impostore:
irrimediabile amore.
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Nessuna cosa è, ogni cosa è.
È. e.
Ogni cosa verso l’erranza
riconsidera che tutto vive e si illumina
per essere lasciato polvere nella terra.
Che possiamo vedere?
Gli Dei facciano chiarezza.
Che i poeti scompaiano definitivamente.
Pura deità della natura.
È. O. e.
La poesia solo la Poesia del mondo
può sapere.
Che può sapere?