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Montorfano | Cambiare e mentire

Il cambiamento è la “sostituzione o l’avvicendamento che riguarda in tutto o in parte la sostanza o l’aspetto di qualcosa o di qualcuno: è il mutamento che interviene in una situazione.”
Voluto, cercato, perseguito o fortunosamente avvenuto, subìto o violentemente imposto, il cambiamento è necessariamente la gratuità della ricaduta nello stato di natura che converte, con la propria produzione, un fatto in destino.
Ma se il cambiare – o il più generico cambiamento – è l’attraversamento di zone ostili e di resistenza accordate con il tema del tempo, parimenti conserva anche nel proprio incedere l’inaspettata benevolenza del vento quando ci accarezza durante la calura estiva. Allora un senso di benessere ci invade e ci guida. Dona ai nostri pensieri una fede senza limiti e il nero dell’impossibilità cade come la notte al primo albeggio. Il cambiamento nel suo avvicendamento si posiziona sul crocevia dove la catastrofe e la testimonianza si guardano con fare circospetto, riconoscendosi reciprocamente in un debito infinito.
Perché il cambiamento, nel suo avveramento, giunge in una configurazione difficile da immaginare, proprio come la catastrofe, così fragile e così esposta al mutamento della storia. Vedere un cambiamento arrivare, vederlo venire nella sua singolarità e in quella particolare incrinatura silenziosa che sovverte le nostre vite è un lavoro da indovini perché non diventerà leggibile fino a quando non costituirà il sotto testo, il doppio fondo, la nota a piè di pagina dell’esistenza che ognuno di noi conduce.
Sì, un cambiamento si annuncia raramente come tale. Forse perché è una matassa aggrovigliata di storie e quindi di azioni, di fatti, di sospiri, di fallimenti e di rivincite. Storie inscritte in altre storie che una forza silenziosa spinge fino all’abrasione, all’annientamento, producendo un risultato che ha come forza il contrasto e la differenza. Il cambiamento non è quindi attraversato dall’acuto dell’annunciazione ma dalla voce modesta che rende le cose visibili restituendole alla potenza critica nel presente della loro conoscibilità.

Forse proprio in virtù di questa sua evidenza sotterranea, il cambiamento, quando richiamato dalla memoria nel suo significato, è sempre affiliato al bene o a una qualche forma di verità. Il bene non può che produrre bene e la verità non può che mitigare le impervie e accidentate strade della vita consegnando al dirupo la mitezza delle campagne assolate.

Basterebbe però accostare a questa visione euforica della vita lo stupore per la massa di increspature e trasformazioni che quotidianamente l’attraversano per sentirsi in balia degli eventi, al comando di un’imbarcazione “con una piccola falla”, come scrisse Eliot.
Parafrasando il famoso assunto della scuola di Palo Alto in merito alla comunicazione, potremmo dire che tutto è cambiamento, fuori e dentro di noi. Un refolo di vento increspa la superficie dell’acqua e ne cancella i riflessi, un debole colpo di coda di un pesce, un sasso caduto, un ramo che passa placido sul dorso della corrente rompendone l’omogeneità o la corrente stessa che scuote la massa d’acqua fino a farla voltare in un angolo remoto dei suoi confini. Limpida o scossa dal fango, dalle alghe, dal turbinio delle pale delle imbarcazioni, dalle bracciate di un nuotatore o dal tuffo rumoroso pieno di risate dei bambini, l’acqua è sempre stata la metafora di ciò che è e mai tornerà ad essere ciò che era. Mutazione, trasformazione, cambiamento che sfuggono al dominio stringente dell’inferenza razionale. Ecco, l’aria immobile si torce all’improvviso. Un suono troppo forte o troppo debole ci colpisce. Un terreno compatto smosso lentamente dalle radici o dal lavoro incessante delle formiche si guasta, il becco di un uccello dichiara la morte della sopravvivenza. Tutto sommerge il passato producendo una nuova composizione e nell’affermazione della nuova normalità ancora tutto si increspa, crolla, si ricostruisce davanti ai nostri visi freddi o toccati dal sudore, tempo che scorre nonostante ogni notte la notte voglia imprigionarlo tra le sue cecità.
Ma se il cambiamento è il vasto oceano della vita, sia nella propria declinazione evolutiva sia nella forma di deperimento e morte, è nella sua azione più singolare che muove le maggiori curiosità. Non la massa guidata verso lo stupore ma il nero da cui l’acqua sorge e, nella discesa della corsa, cresce e travolge. Il punto minuscolo sulla mappa della pluralità del mondo. Il punto decisivo delle forze sotterranee dove il cambiamento si muove, accelera, respira.
Il cambiamento lambisce la trasformazione spostandosi da un insieme a un altro con agilità sorprendente operando uno slittamento di significato e di percezione in modo silenzioso. Nelle nostre segrete qualcosa di più e di diverso produce fantasmi e muove le macchine dell’immaginazione unendo i fili del destino. Una di queste mani è la menzogna. Menzogna, la cui condanna morale impedisce di apprezzarne i giochi nel chiaroscuro dei significati e del comportamento. Menzogna, questa parola sinistra e pestilenziale, che sembra rovinare tutto ciò che c’è di vero e di splendente. Cacciata, inseguita, temuta, tanto più sfrontata e oscena quanto più dilaga e penetra nel corpo della società producendo una mutazione genetica e impadronendosi delle anime, come si trattasse di una vera e propria possessione. Il veleno che diffonde nell’aria intossica le persone senza fare differenza – scriveva Givone – non fra chi è colto e chi è ignorante, non fra chi domina o è dominato. Ma qui non si vuole far affiorare l’etica della verità per scacciare il tocco suadente della menzogna, bensì guardare l’agire temerario o folle, benevolo o incosciente, lucido o malato della menzogna che urta gli uomini gettandoli nella confusione e smarrendoli mentre cambiano l’incambiabile.

La definizione più comunemente diffusa di menzogna lascia intendere che un individuo mente con cognizione di causa: conosce la verità e decide di mascherarla, oppure di affermare il contrario. Mente consapevolmente. Eppure, in molte situazioni, la menzogna non viene individuata in modo chiaro seppure il terrore che sparge semini e nutra la volontà di stanare il bugiardo con ogni mezzo, che siano macchine della verità o discipline che analizzano posture e sguardi. Non potendo scrutare cuore e reni, la denuncia della menzogna si scontra con l’oscurità delle intenzioni. Il taglio netto operato dai principi morali non si sposa a un’analisi attenta dei movimenti o dell’implicazioni del bugiardo nei suoi enunciati. A volte, il bugiardo può credere alle sue menzogne per autoconvinzione trovando un accordo con la verità. Come possiamo allora individuare una menzogna che non è vissuta come tale? E come possiamo stanare la menzogna più diffusa ossia quella che ognuno di noi racconta a se stesso? La verità non si fonda sempre su fatti incontrovertibili. La percezione che l’uomo ha della propria menzogna è così mutevole che la verità può declinarsi secondo misure e colori fino a perdersi nel groviglio dove le ombre sono la messa a nudo della propria anima.

I mille modi in cui un soggetto può sbagliare, credere alle sue menzogne e cadere nella trappola del suo amor proprio, portano ad ampliare l’indagine sulla menzogna oltre l’atto intenzionale. I bugiardi non sanno sempre di mentire, tanto che infangano gli altri ma anche se stessi.

Nelle situazioni ordinarie, i bugiardi sfoggiano diversi talenti per sostenere le proprie menzogne, perché sono obbligati a comprovarle con molte altre storie. Se chi parla francamente non ha bisogno di oberarsi di espedienti, riuscendo a far chiarezza nel momento in cui rivela la verità, il bugiardo, al contrario, compone diverse e infinite finzioni. Egli affabula, ovvero intreccia diversi racconti e ne aggiunge altri nella misura in cui emergono prove contrarie. Spesso questo accumulo di dettagli o questo sforzo per contrastare la verità, diventa rilevatore della menzogna. Di fronte a figure così prolisse e così subdole, il sospetto può sorgere anche dall’insistenza con cui un soggetto ostenta una verità o una qualità. Insistere, ripetere, martellare, sono atti linguistici sospetti che rivelano un’inquietudine, opposta alla sicurezza mostrata dall’enunciatore. Freud osservava che ripetiamo ciò che non riusciamo a dire una volte per tutte. Da un punto di vista linguistico, la ripetizione indica piuttosto una dissonanza vissuta al presente, o anche un conflitto in atto tra l’enunciato e il suo significato.
Un esempio ci viene dal padre della pedagogia Rousseau che nelle sue “Confessioni”, tenta di svincolarsi dall’accusa infamante dell’abbandono di tutti i suoi figli in orfanotrofio.
L’energia folle impiegata per scrivere il suo trattato, che approda a una dimostrazione iperbolica e interminabile, proviene dal desiderio di nascondere la verità – scrive Noudelmann . Il diniego non si limita all’astuzia di uno scolaro che vorrebbe nascondere una colpa, ma testimonia di una mobilitazione totale della mente a favore di una falsa verità che diventa il motore delle produzioni intellettuali. Quindi, il ricorso alla filosofia serve per articolare la menzogna in un linguaggio universale e per elaborarla in una retorica senza fine. La prosa teorica è il luogo, la scena, la materia di questo inganno, grazie al quale l’autore può dirsi innocente, buono, senza rimorsi, trasparente, mentre nasconde una colpa irreparabile. La menzogna si sviluppa mediante cuciture che testimoniano un’unione difficile tra verità e contro-verità. A volte, questi rammendi cuciti nel tessuto del testo sono invisibili, perché un’affermazione eclatante, che ricopre la menzogna e la sua attività, ha eliminato la ferita. Resta un macchinoso sistema di velature dove possiamo cercare di scorgere il falso mentre salta da intenzione a intenzione, da significato a significato e dove bordi, crepe e defezioni sono così imprevedibili da essere avvicinati alla seduzione vertiginosa.

Un altro tipo di menzogna proviene dal mondo dell’arte quando si trasforma in archivio storico: le forze a lato dell’opera vedono l’opera nella sua meraviglia di merce che deperisce e operano per non farla scomparire, anche a costo di resuscitarla.
La storia dell’arte è disseminata di questi esempi. E conservare è operare dei micro cambiamenti che vadano a giocare sottotraccia, sufficientemente appariscenti da farsi dimenticare. Un esempio è l’opera “Merzbau” di Kurt Schwitters. Schwitters aveva iniziato “Merzbau” nel 1923 nella sua casa di Hannover, in Waldhausenstraβe 5 bis e vi aveva lavorato fino al 1937, anno in cui si era dovuto rifugiare a Oslo. L’opera è la trasformazione dello spazio domestico in micro-mondo attraversato da continue e nuove relazioni e connessioni in un processo dinamico basato su addizione e sottrazione. Iniziando dal proprio studio infatti Schwitters si era spinto nelle stanze adiacenti tagliando soffitti e pavimenti, aggiungendo oggetti prelevati dalla vita quotidiana e forme scultoree definendo in questo modo uno spazio che si strutturava e si modificava lungo molteplici assi irregolari. Nel 1943 la casa di Schwitters venne distrutta da un raid aereo britannico e di quello che l’artista aveva definito come “il lavoro della mia vita” rimasero solo tre fotografie della stanza principale.
Nel 1983, Szeemann, in occasione della mostra “Der Hang zum Gesamtkunstwerk Europäische utopien seit 1800” allestita a Zurigo, Düsseldorf e Vienna, decise di ricostruire la “Merzbau” da lui considerata come una delle prime realizzazioni di “opera d’arte totale”. Era possibile attuare questo progetto avendo a disposizione solamente tre foto, una pianta vaga dell’abitazione e la testimonianza del figlio dell’artista che aveva visto l’ambiente complessivo quarantaquattro anni prima, all’età di diciotto anni?
Il lavoro di ricostruzione fu molto difficile e, in mancanza di misure esatte, la ricostruzione tridimensionale dello studio fu resa possibile dalla presenza in tutte e tre le fotografie storiche di uno stesso particolare, ripreso da angolazioni diverse. Gli oggetti furono riprodotti utilizzando gli ingrandimenti delle foto, mentre luci e colori furono riproposti attenendosi ai ricordi del figlio.
L’opera, acquistata e riallestita nello Sprengel Museum di Hannover subito dopo l’esposizione, non sempre viene riconosciuta come “tentativo di ricostruzione” e si presta a numerosi fraintendimenti. La ricostruzione lascia in vista la struttura esterna e sopra l’entrata è stato collocato un grande specchio con la scritta “Marzbau”. Nonostante la presenza di didascalie e indicazioni esaustive, si è constatato che alcuni visitatori percepiscono la scritta esterna come elemento intrinseco all’opera di Schwitters, mentre altri scambiano la ricostruzione del Merzbau per l’originale.
Se questa ricostruzione ha permesso di far conoscere l’opera di Schwitters al di fuori della cerchia degli studiosi è doveroso affermare che la legittimità di un’operazione di questo tipo semina diversi dubbi sulla trasposizione e la consegna al pubblico della vera intenzionalità dell’artista. Può, in altre parole, questa riproposizione, essere davvero testimone del suo spirito originario?

Può un’opera perduta ripresentarsi ai nostri occhi con la propria presenza massimizzando l’evocazione per meglio affermarsi? C’è una relazione tra cambiamento e conservazione? Possono entrambi far parte della stessa famiglia di significati qualora sia in atto una forma di tutela? Può il cambiamento farsi carico di un valore estetico e secondariamente morale per affermare il proprio dono umanitario?

La risposta a questi quesiti porta all’annotazione che il cambiamento opera anche attraverso il nascondimento di sé, autorevole e autorizzato. La menzogna, al termine di un processo di ricostruzione, è talmente minimale e collusa all’idea del bene da risultare secondaria e a favore dell’emozione che vuole preservare e garantire. Se la menzogna è sempre stata spinta fuori dalla casa della verità, qui siamo di fronte a due strade che corrono parallele per incontrarsi in una radura. Una radura dove giocare con le ombre. Perché da un lato una serie di antitesi orchestra la scelta del vero, la sua trasparenza, la sua sincerità, la sua naturale purezza, in contrapposizione all’opacità del falso dell’errore, della menzogna, e della sua ipocrita commedia. Dall’altro, il diniego della colpa e la sua paradossale confessione producono un’alternanza infernale tra verità e menzogna. Il colpevole ribalta il pregiudizio e in tal modo diventa una vittima, diventa colui che ha agito in accordo alla trasparenza dell’innocenza.
Ma la menzogna non è solo la storpiatura del vero, il cammino notturno della verità circondata o aggredita dalla violenza. A volte vira verso il bene diventando la luce che splende alta nel cielo. Ad esempio quando compare sulla scena per non obbligare gli altri, per non porli in una situazione insopportabile, non confrontarli ad alternative morali dolorose. Queste preoccupazioni indicano una generosità che passa attraverso il segreto e il diniego. Per questo il termine menzogna sembra poco adeguato: conservare dei segreti non è mentire, ma lasciare che certe verità non vengano dette. Come ha osservato Benjamin Constant, l’obbligo di dire tutto implicherebbe il diritto abusivo degli altri di sapere tutto. Contro l’ingiunzione di confessarsi, di ammettere, bisogna rivendicare il diritto al segreto.

Allora, tra questi esempi, certamente riduttivi, possiamo notare come la menzogna possa essere parte delle forze agenti in un cambiamento e che la sua dedizione non sia inscrivibile unicamente al lato oscuro dell’umanità, quell’essere nel calvario del male che deve essere stanato, schiacciato o redento in favore del vero e del bene, ma proprio in forza di questa oscurità, emerge come opposizione all’idealizzazione della luce ricordandoci che il mondo che componiamo è anche il frutto splendido dell’azione del gelo e della tenebra; l’angolo sperduto e l’antro segreto della nostra identità che, ancora una volta, rivendica la propria fragilità.


Cfr.
Le génie du mensonge, F. Noudelmann, Max Milo édition, 2015
Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni, B. Ferriani, M. Pugliese, Electa, 2009

Photo by Vidar Nordli-Mathisen

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