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Montorfano | Flare

John Gerrard crea mondi virtuali nelle sue opere d’arte. Vi risuonano temi sociali e politici, come la produzione di energia, l’approvvigionamento alimentare, i flussi d’informazione. Endling, titolo dell’ultima mostra allestita con il contribuito della Pace Gallery di New York, si riferisce all’ultimo passo, l’ultimo momento prima dell’estinzione. L’esposizione esamina le complesse relazioni tra potere politico, nazionalità, energia, sfruttamento ambientale, presentando tre nuove simulazioni: Endling (Martha), washington.stream e Flare (Oceania). Questi mondi virtuali seguiranno l’ora locale dei rispettivi soggetti: Cincinnati, Los Angeles e Tonga. Per tutta la durata della mostra, le porte della 510 West 25th Street rimarranno aperte, invitando gli spettatori a interagire con le simulazioni rivolte al pubblico come parte di un’esperienza comune. Estendendo la galleria in strada, Flare (Oceania) sarà immediatamente visibile ai passanti.
Quest’opera presenta una torcia a gas, che brucia a forma di bandiera nell’Oceano Pacifico meridionale vicino a Tonga. Basato sulle fotografie dell’oceano catturate dall’attivista e artista Uili Lousi, Flare (Oceania) medita sulla minaccia esistenziale che il riscaldamento degli oceani rappresenta per le coste, le isole e tutte le terre limitrofe al mare, nonché sui fattori economici e geopolitici che contribuiscono alla crisi climatica. Fungendo da fulcro della mostra, Flare (Oceania), commissionato da Bridgitt Evans, è presentato su uno schermo ad alta risoluzione di 5,5×5,5 metri fornito da ROE Visual, uno dei principali produttori di display a LED con cui Gerrard ha precedentemente collaborato.

Queste poche informazioni estrapolate dal comunicato della Pace Gallery ci aiutano a dare un bordo all’immagine che, imponente, si presenta davanti a noi. Un bordo vasto, eccessivamente vasto, che prende avvio e si muove su temi mondiali e comuni alle razze. Inquinamento, sfruttamento sono problematiche pratiche ma soprattutto etiche dove l’ampio orizzonte interpretativo si schiaccia sull’universale amnistia morale concessa al nostro stile di vita.
Come decrittare allora quest’immagine? Quale racconto significante possiamo estrapolare affinché l’estetica di quest’opera simulativa non si allunghi con il suo carico seduttivo sulla marea irresistibile dell’oblio che, nel tempo, sommerge le cose, le intenzioni e i pensieri, le proteste disperate e gli intimi segreti di cui tutti siamo portatori?

Serve guardare e riguardare la simulazione di Gerrard per accorgersi dell’ambiguità visiva di ciò che vediamo, del suo apparire e sparire, della propria natura evanescente che è il fantasma di un reale. Esposti all’immenso schermo luminoso, ci accorgeremmo che qui non c’è una bandiera.

Non c’è l’oggetto materiale con il suo carico simbologico che brucia. L’immagine fa eco alle immagini più famose di distruzione e soverchiamento di un potere, all’azione forzata di ripristino della libertà agita con ribellione, violenza o diritto. Ma qui non si consuma uno stendardo, non si rovescia una nazione. Qui non c’è cenere, ma solo il bruciare. Il fuoco e il nero sono l’oggetto fisico, la totalità del simbolo e dell’etica. Il fuoco che si brucia, il nero che si consuma e ritorna, l’azzurro del cielo e dell’oceano come il mondo inerme preso dalla guerra. Sotto questa furia che troneggia, l’oceano/mondo sembra destinato a soccombere, ad essere risucchiato per dare vita a ciò che si consuma eternamente, a ciò che non vuole fermarsi, non vuole spegnersi. Nero che si gonfia e si soffoca. Fuoco che non ha sepoltura, che non misura i torti, che illumina il nero della notte che esso stesso partorisce.
Questo bruciare è il primo racconto. La simulazione del rovesciamento di un paradigma dove la vita diventa cosa e la cosa agguanta il posto della vita. Il fuoco prodotto dal mondo sale al trono. L’oceano/mondo che regala materia da bruciare, energia per scaldare, è ridotto a cosa da spolpare. Da forza primaria a cosa pietosa, cosa che chiede tregua, cosa esangue che chiede perdono per il semplice fatto di esserci. Chiede perdono per una colpa che si sente eppure non ha. È il regime dello sfruttato, della mano d’opera che ha perso ogni diritto perché non può più replicare.

C’è anche un secondo racconto nella simulazione di Gerrard. C’è un momento infatti, un istante fatto di pochi frame, dove non c’è più né fuoco né nero. Quello che di primo acchito sembrerebbe una tregua in verità apre a una nuova sfida. Ora c’è solo un’asta che emerge dall’oceano. Trascurabile, esile. L’estirpazione, il male che rovesciava l’ordine naturale delle cose, è fermo. È immobile. E il nostro pensiero, aperto da ciò che sembra finalmente la pace, inizia a domandarsi quando chiedere perdono. Come chiedere perdono. Perdono alla terra, al mondo, a noi stessi.
Ma la risposta è un doppio silenzio, una doppia resa. Perché quando il crimine è troppo radicale, quando diventa mostruoso, non si tratta più di perdonare poiché il perdono non è più nella misura dell’uomo. E non si può chiedere perdono perché il perdono può essere accordato solo se è esplicitamente domandato, solo se chi lo chiede confessa la propria colpa, domanda esplicitamente perdono. Ma qui, guardando l’oceano immobile e l’asta silente, in questa cessazione del fuoco e del nero, la risposta è il silenzio tangibile a cui assistiamo.

È questo silenzio che ci suggerisce quanto il perdono non giungerà alla riconciliazione e sarà costantemente superato, supposto a venire quanto disperatamente differito.

Capiamo che nessuno chiederà perdono a nessuno. Il fuoco riprenderà ad essere fuoco, l’oceano oceano, le redini di questo gioco tra soggiogazione ed estirpazione fino all’esausto, fino alla morte, perdureranno per il bagliore della sopravvivenza che non ha limite e non ha limite in quanto ne è indefinibile la misura. Questo è il gioco dell’inevitabile, della procrastinazione infinita. Costituito, appaltato, agito affinché tutto sia confuso con tutto, l’obbiettivo con la causa, il limite con il processo. Non ci sarà una richiesta di perdono perché nessuna colpa verrà ammessa in quanto non c’è nulla da farsi perdonare.

Rimane allora l’opera dove la totalità degli eventi sono raccolti tra il tempo eternamente presente del bruciare (l’ora, l’adesso) e l’immagine (la trasparenza che si vendica, il ciò che è esondante fino all’aggressione). Rimane la domanda che accompagnerà per sempre noi visitatori e fruitori: ossia se può bastare l’estetica dell’opera, attraverso il proprio fascino e la propria seduzione, a far tacere il lamento e l’accusa. Se il dono che il bello fa di sé può sufficientemente chiedere, nel rumore del proprio corpo, perdono.


Photo by Olga Bast

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