Montorfano | Jordan Seiler
In Public Access Jordan Seiler osserva come tutte le città metropolitane abbiano una rete di autobus o tram che nel corso del tempo ha integrato, nei suoi servizi di mobilità sociale, l’industria globale della pubblicità. Pubblicità che ha lentamente assoggettato lo spazio pubblico, prima all’esterno dei mezzi, poi al loro interno e, infine, nelle innumerevoli isole di attesa, conquistando così il diritto esclusivo di esporre contenuti commerciali a scopo di lucro. Questo messaggio aziendale globale, invocando i nostri desideri a discapito dell’ambiente, mette a tacere le nostre voci, mette a tacere la possibilità dell’incontro. Il progetto vuole invertire la comunicazione unidirezionale fornendo a tutti l’accesso alle infrastrutture municipali, sostituendo al messaggio pubblicitario messaggi di persone comuni e artisti.
Nel progetto NOAD la trasformazione del messaggio industriale avviene inquadrando con il cellulare o il tablet un cartellone pubblicitario il quale si trasformerà in un’opera d’arte o in una frase, sostituendosi alla meccanica pubblicitaria e restituendo dignità alla società.
NYSAT -New York Street Advertising Takeover- ha invece coinvolto oltre 100 artisti, attivisti, fotografi, videomaker, avvocati, madri, padri, studenti, insegnanti e cittadini pubblici. 9 persone sono state arrestate spendendo collettivamente un totale di 310 ore in prigione.
Nonostante il sacrificio e lo sforzo, il punto terminale è la consapevolezza di poter influenzare positivamente l’ambiente che ci circonda e creare la città che desideriamo alterando direttamente gli spazi in cui viviamo. Coscienza e responsabilità sono i due principi.
In ultimo: TALK TO ME. 5 telefoni a pagamento pubblici sono stati situati in ciascuno dei 5 distretti di N.Y. e possono “chiamarsi” a vicenda. I partecipanti che prendono un ricevitore fanno squillare gli altri 4 apparecchi invitando i newyorkesi di passaggio a rispondere alla telefonata. Alzare la cornetta metterà due sconosciuti in conversazione lasciandoli nell’interazione fortuita con il loro vicino. Rispondere alla chiamata o chiamare non è solo dare una forma alla casualità ma è accettare il potere trasformativo della nostra parola. È la forza della sorpresa che trova destinazione.
Quattro campagne quindi, quattro punti che formano un quadrato le cui dimensioni variano con il variare dei partecipanti; al singolo che agisce componendo una pluralità e intervenendo nella società per comprendere la comunità. Questo quadrato è il quartiere, lo stato, il mondo. Il quadrato è il particolare, è il tutto. Attivo e passivo comprendono chi opera sui frammenti del presente attraversato e chi guarda lo stesso presente trasformato. La forza di questa figura geometrica che si espande nella partecipazione o si atrofizza nella mancanza e che la rende vitale e instabile, muscolare o germinale, è innanzitutto la bellezza del gioco, con l’impegno e la dedizione che il giocare pretende. Si spalanca allora intorno a noi il mondo fatto di esseri umani che ridono, corrono, rischiano, pensieri umani non più costretti e schiacciati dentro vestiti troppo stretti come quelli che la pubblicità e la cultura industriale ci sottopongono. Se il mondo è delle immagini, che queste immagini siano nostre, siano il nostro sorriso o il nostro grido; che le linee tracciate sul foglio non abbiano l’impudicizia di un secondo fine ma solamente il desiderio di dire qualcosa all’altro.
È un gioco, sì, ma un gioco che mina il troppo inutile che ci circonda per restituire la bellezza dell’umano, per restituire a noi stessi il nostro sé saltando l’interminabile fila del giudizio altrui o semplicemente il nostro per dare ciò che il nostro gioco ha prodotto. Senza ottenere nulla, senza chiedere nulla, se non l’alta gratuità di un incontro tra le risme del nostro essere.
Ma se il lavoro di Jordan fosse sostenuto unicamente dal fare giocoso, tutto scorrerebbe in mille diramazioni prive di alcun obiettivo se non lo scorrimento in sé; perderebbe l’impeto della massa d’acqua che cerca di scavalcare il proprio argine. Qui il fiume, il gioco, hanno una forza persuasiva, una forza di esondamento a tratti pericolosa che rende il movimento di questo gioco imprevedibile. Perché il gioco produce una sostituzione nel tessuto urbano il quale provoca irrimediabilmente una lacerazione nell’ordinarietà che ora si sveglia diversa: intima, incauta, personale. Ritrovare la fermata del tram che tutti i giorni frequentiamo, con i cartelloni che tutti i giorni vediamo, la foto di una macchina con tutte le sue qualità meccaniche eccezionali sostituita da un dipinto con Batman che dice: “All power to the people”, oppure la pubblicità di una borsa che con la sua insistenza giornaliera iniziava a sedurci sostituita da una scritta che recita: “Silencio” cambia la nostra routine, mina l’ordine della prevedibilità.
Le cose sono fuori posto, sono cambiate. Il sorriso o lo stupore terminano rapidamente per lasciare posto a qualcosa di più inquietante. Se l’invasione totale dell’industria con la propria cultura commerciale spacciata come desiderio per i desideranti ha lasciato un senso di impotenza, di difficoltà nella sua pervasività, riferirsi a se stessi è diventata una difficoltà e una opacità. La sostituzione dei messaggi vuole la mediazione, la stanchezza di una coscientizzazione.
L’urto della sostituzione ha prodotto uno spazio che dopo il sorriso dello stupore si presenta come intruso, qualcosa che non smette mai di alterarsi, intruso nel mondo come in se stesso. Spinta inquietante del pieno che non è mai pieno. Rigurgito dell’intrusione violenta dell’intruso che isola e sovverte il quotidiano affinché la sua bulimia non si incisti con la morte.
Il gioco di Jordan e il gioco al quale ci fa partecipare ha allora l’azione dirompente della rivoluzione. È il gioco che vira nella forma libera della decostruzione di tutte le regole scontrandosi con le stesse regole che l’hanno generato. La leggerezza del gioco è sempre la disposizione a una guerra, una rivoluzione compiuta al margine, sul margine di quello spazio che rappresenta la nostra socialità. Il risultato è che questo mondo disumanizzante, questa bulimia che riempie ogni spazio e anfratto a disposizione intorno a noi, che vuole riempirci ad ogni costo, che vuole penetrarci immaginandoci come spazi da occupare, questo niente che ha scelto di plasmarci utilizzando la seduzione e l’onnipresenza, ora deve essere coperto, deve essere schiacciato con un colpo di mano che fa saltare il tavolo dell’obbedienza.
Sembra allora che i lavori di Jordan abbiano un obiettivo non solo sociale, ma anche pedagogico. L’educare alla possibilità di riconquistare la vita che ci gravita attorno e di cui noi siamo parte. È un obiettivo rischioso, non solo perché lambisce un inevitabile giudizio a priori ma perché può disporsi e incamminarsi nello sproloquio della morale, in quel dire ottuso che vede nel fare, in qualsiasi fare, la modalità definitiva per la salvezza. Il gioco e la sua rivoluzionarietà inscritta rischiano di diventare semplice comburente per emozionare la massa unendo furbescamente morale ed emotività, parafrasando così la loro possibile sostituzione arbitraria.
Questa falla ideologica è risolta in un modo molto semplice e il semplice qui non indica tanto l’opposto del complesso ma l’incompiuto. Nella gratuità e nel processo di un viaggio che non potrà mai arrivare a termine si afferma il senso fondante di ogni democrazia: nel disegnare il contorno o i contorni plurali di un’indeterminazione e di un incompiuto afferma che proprio nelle aperture possono aver luogo delle affermazioni. Ma in che modo Jordan mette in moto tutto questo? Iniettando un dubbio nella continuità dei lavori partecipativi, ovvero che forse una comunità non si può formare ma esistere solo nella tensione infinita dell’uno verso l’altro. Nell’amore “nell’impossibile amore” -come enuncia Levinas- che è il tentativo dell’attenzione infinita verso l’Altro.
Foto di John Paul Henry