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Montorfano | La parola illeggibile

Ogni parola è l’annunciazione di qualcosa sopra il nostro cielo, la costellazione al di là della tenebra dello spazio. Non è una questione di ottica ma di slancio. Luminosa, incandescente, pressata e precipitante, la parola si spalanca dietro i nostri occhi che la guardano omogenea, indifesa, fissa; lontana dalla nostra bocca e dal nostro sguardo quando non trova posto nella scacchiera celeste, pregna di un significato inutile se non nell’identificazione nominale. Sola e muta sulla coltre di neve del foglio prima di essere inghiottita e le strisce nere delle sue lettere delavate negli spazi acquitrinosi di quel manto candido che tutto sorregge e cancella.
Se una manciata di parole sparse come i semi sul terreno inizia a tracciare un discorso, pur tra i salti e i balzi della casualità, una singola parola posata su un foglio, su un muro, o semplicemente nella nostra testa, mantiene una strana forma di solitudine che le conferisce la totale opacità o l’incandescenza dell’erranza propriamente dei pianeti. Instabile, turbolenta, movimentata, imprevedibile, una parola è sempre il cominciamento di uno sciame, l’inizio degli inizi sconosciuti del discorso e del suo divenire ancorato al buio. Una parola rivela e richiude, stana e sopprime, vocifera nel rumore tra i rumori delle altre stelle.
Ogni volta che la incontriamo, sigla il respiro del dialogo e in questo primo incontro marca la propria interruzione, il suo precedere la fine, il futuro che necessita di uno spazio infinito e di infinite possibilità per darci in anticipo lo slancio di una scommessa che prosegue, come da suo statuto, nell’ignoto del futuro.
Prima di essere costellazione, prima di essere frase, di essere pensiero che si racconta e si snoda lungo le tortuose vie della sua pratica, è minuta, misera e splendente singolarità che si interrompe per un eccesso di futuro, per un eccesso di particolari, un eccesso di mondo che racchiuso nell’involucro si interrompe e cammina verso la morte, la precede, la funesta con il suo implacabile futuro anteriore.

Ogni parola è un pianeta, una marea, un respiro, che gioca in anticipo sul tavolo del tempo sapendo che resterà nella solitudine del destino che tende oltre il ricordo. Questo slancio, questo forzare lo sbarramento che poco prima l’ha interrotta assomiglia all’atto agitato del giocatore quando, attraverso la speranza della preveggenza, lancia sul tavolo del mondo tutto se stesso. Questa idea macchinosa ha come mira l’esondazione di ogni pratica o la più semplice esondazione di ogni ipotesi aperta immaginando, seppure in un tormento convulso, il controllo di una massa inarginabile e sconosciuta.

Se questa azione è inscrivibile nello statuto di tutte le cose confuse, è anche, nella sua potenza, nel suo essere nel respiro, un respiro diverso, la movimentata solitudine di proporre l’improbabile. La parola, ogni singola parola, in questo agire totale, in questo gettarsi nel baratro dello sconosciuto e nelle maglie del mistero trattenendo il fiato, muove una causa, una lotta, una guerra, un dubbio al proprio isolamento. Un dubbio che diventa la probabilità di un significato e di un significante. In questa selva semantica, in quel fuoriuscire di significato ancora da diventare, nel silenzio dei nostri pensieri o dei nostri abbracci, nell’esplosione del freddo manto sociale o degli incontri, innesca un richiamo ostinato del suo diritto a far valere i propri diritti. Un’interrogazione di sé che la ispessisce, le regala il diorama delle varianti, fessure buie dove altri significati e altre parole vengono a nidificare. È necessario riconoscere alla parola, a ogni parola, una carica propria che la porta più avanti di quanto il significato consolidato della storia tenda a insularizzarla.
Yves Bonnefoy parlava di un suono silenzioso che abita la parola e che nulla ha da spartire con il suono della sua pronuncia. Un suono segreto che è il vero significato della parola. Io immagino che questo suono proceda da ciò che lo avvolge, un po’ più in là dell’orecchio attento e innamorato che lo scorge tra la confusione martellante dei suoni che abitiamo. Immagino che questo spazio compiuto dal suono e dal suo silenzio ritorni sulla parola senza trasformarla ma semplicemente “portandola” e portandola la soppesi, la pesi, ne mostri la gravità, l’energia che la ancora a terra e la rende utilizzabile. La parola abitata da quest’eco di ritorno diventa la parola possibile. La parola pensata. Perché pensare, come disse Derrida, il latino come anche in francese, è pesare, compensare, controbilanciare, comparare, esaminare. Il peso di un pensiero chiama ed è sempre chiamato l’esame, examen, è l’ago di una bilancia alla quale si affida la giustezza e la giustizia di un giudizio su ciò che gli si dà da portare.
Errante, slancio della scommessa, costellazione e pianeta, solitudine e sorpresa, portatrice di senso e portata dal suono e dal senso, la parola, prima del confronto e della profondità dei suoi sensi, prima della placida immobilizzazione dettata dallo stupore, accende l’audacia del tempo e la delusione del suo status. Se l’attraversamento nelle ere ci restituisce lo stupore del suo accrescimento nel genere del significato o le sue mutazioni, la delusione ci viene restituita quando la guardiamo e la utilizziamo sembrandoci sempre troppo poco nel quotidiano, sottostimata, come sottostimiamo le nostre mani e le nostre dita.
Eppure, proprio come le nostre mani, queste mani con le quali nasciamo, la parola si presenta sempre come una sorta di interrogazione multipla che, al proprio interno, tra i sintagmi innocenti, si dona e si rifiuta nell’intreccio delle spaccature e dei ripiegamenti che si sciolgono e si snodano come segni del destino. La parola è qui, nel brillio di questi limiti interni, di queste unità che rischiano continuamente di scomparire.
Senza questo rischio, senza questa improbabilità, senza questa impossibilità di provare che deve dimorare all’infinito e che non deve essere saturata o chiusa da una certezza, non si avrebbe né lettura né dono né sorpresa né storia. Se una parola, nella propria solitudine e nella propria costellazione sembra interrompere o sospendere la decifrazione di un senso, in verità di quella lontananza che la possiede ne garantisce l’avvenire. L’indecisione tiene per sempre l’attenzione in vita, sveglia, vigile, pronta a impegnarsi in qualsiasi altro cammino. Come scrisse Derrida, l’interruzione è indecisa, indecide. Dona il suo respiro alla domanda che, lungi dal paralizzare, mette in movimento. L’interruzione libera un movimento infinito. Dal cuore della propria solitudine e attraverso la propria illeggibilità la parola può parlare. Qui in modo trasparente, là nell’opacità delle congetture. Questa autoreferenza resta sempre un appello al dopo, un appello all’altro. E là dove la parola nomina l’illeggibilità dichiara anche l’illeggibilità del mondo.

 


Photo by Egor Myznik

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