Montorfano | L’insieme vuoto
Ciò di cui parlerò è sotto ciò che si vede. Perchè ciò che vediamo della Reliquia è solo la terra deserta. Una terra deserta gravida di tutto ciò che sta sotto. Allora inizierò porgendo la domanda più banale: “Che cos’è la reliquia?” E la risposta coincide con l’atto stesso del suo divenire. La cosa che arriva ad occultarsi per presentare il proprio tremore. Sgretolamento, caduta, deterioramento, saranno la prova e la vittoria di quel niente che è rimasto a difendere i nostri occhi dalla corona in fiamme della sua eclissi. Che cos’è la reliquia? non è dunque una domanda che ci si pone davanti alla reliquia stessa ma lo sprofondamento nella cavità dove la reliquia si trova. Una cavità nella quale si può intravedere immediatamente il suo paradosso: lo sbriciolarsi della natura originaria e l’inabissarsi nel tempo facendosi dimenticare, sotterrare, assottigliandosi e marcendo nell’oscurità per poi, miracolosamente, ricomporsi come un Lazzaro richiamato dal mondo dei morti.
In questo cammino sotto terra, non c’è ancora il popolo che l’accoglierà. La gente che la scoprirà, inginocchiandosi. Questo viaggio nell’oscurità è il mistero che la avvolge con la propria strategia fatale: l’atto di una scomparsa che è già un’opera con una nuova sintassi. Un’opera che scava una lingua straniera nella lingua e che si apre attraverso il tempo secondo le modalità dell’impensato, del sintomo, della sopravvivenza. Un discorso che viene dal di sotto e che l’afferra con la presenza della propria assenza. Una lingua che non ha labbra sulle quali pronunciarsi ma solo un desiderio che sprofonda. Un desiderio inatteso, ancora sconosciuto e che avanza sempre nel mezzo di qualcosa e si crea solo nel mezzo della sua cosa. C’è un’urgenza ma non sa quale sia e c’è un’anomalia che la lascia perennemente sulla soglia. Un’urgenza sconosciuta. Un diniego sconosciuto. E questo piccolo dramma che la investe, la agita e la fa sentire sempre sul punto di svanire, questo faccia a faccia invisibile nel quale, suo malgrado, resta impigliata come il vento quando sbatte sui profili della casa e si inceppa tra le serrature, tra i profili delle porte e delle finestre, scuotendole, questa lingua differente ed esterna che si è fabbricata, disegna lo spazio concavo dove nasce la questione “che cos’è la reliquia?”, un biancore essenziale che, in verità, è questa stessa domanda che ruota su se stessa e si sviluppa intorno al proprio centro. La domanda che la interroga e che le è essenziale. Domanda che non è niente di più del vuoto lasciato intorno a sé. Un vuoto che autorizza a pensare una cosa strana e cioè che la Reliquia sia un linguaggio che parla di sé all’infinito, che spera all’infinito, proprio perché la speranza è veramente tale quando, escludendo ogni forma di possesso, si riferisce a ciò che è sempre a venire e forse non verrà mai.
Ma ciò che è più importante non è tanto l’incastro di queste istanze, quanto il fatto che, per via di queste istanze, la Reliquia faccia indietreggiare il racconto che ne proviene, imponendo alla stessa leggenda che inizia a bordeggiare la sua figura, questo incessante linguaggio neutro che si immobilizza, costituendo una cava o una cavità dove blocca il mormorio della propria lingua innalzando un volume opaco ed enigmatico.
E’ una sorta di segnale intermittente che ha proprietà del tutto diverse da quelle del discorso e della lingua comune che rincorrono il proprio baricentro. È un segnale che occulta il proprio messaggio danneggiando lo stesso contorno dell’oggetto che ne permetteva il riconoscimento. È un segnale intermittente che non è utilizzato per dare una connotazione di “verità” alla cosa stessa ma per squarciare lo spazio della verità che le si appoggia addosso, per squarciare lo spazio di quella lingua che la sua domanda ha inventato e che, in qualche maniera, le garantisce una dimensione sagittale che altrimenti non avrebbe. È una legge di sfiguramento che squarcia la verità del proprio passato per evitarne ogni possibile fragilità. Ma anche una legge di continue violazioni affinché qualsiasi parola che tenti di afferrarla e trattenerla nella rete dei significati sia estremamente deludente in rapporto alla sua suggestione.
Questa è la trasgressione che la spinge fino al rifiuto di se stessa, la riporta alla cosa cancellata e sottratta alla stessa scomparsa, alla cosa irriducibile al vero, come lo è ogni rivelazione. Potremmo allora dire che il potere che la erode e la rifabbrica è una continuità singolare verso una violenza sotterranea, aguzza e insieme così pura da accecarla in un’effusione del bene, in quell’orlo del bene che sfiora la cattura e la segregazione per fratturarsi, per inasprirsi. Una violenza che accetta di non essere palese ma segreta e rinuncia a prodigarsi in una azione brutale per risparmiarsi in vista di una forma superiore di dominio. Una violenza occulta che, disarmando la violenza aperta, finisce col diventare la speranza e la garanzia di un mondo liberato dalla violenza. Tre aspetti quindi: quello di un discorso che indietreggia, quello di una verità in perenne elisione e quello della profanazione, permettono alla Reliquia di tratteggiarsi attraverso l’interrogazione di se stessa; la domanda spezzata i cui frammenti sono attirati da una gravità che non è nient’altro se non la sublime metafora dell’ascesa. Una domanda composta da rimozioni e ritorni, da continue violazioni e ricostruzioni, da una volontà contraria all’essere equiparata ad una rovina, all’aborto, perché nulla ha da spartire con il ricordo o l’abbandono. Una domanda che è la continua insistenza nel gioco della lingua affinché possa scontrarsi con la contraddizione e portarsi in quella morte che parla con parole sconnesse: la morte sottratta a se stessa e che, in modo mirabile, è la vita di questa stessa morte.
Così, l’ultimo contrappunto che fugge dal labirinto della rivelazione è anche l’ultimo riflesso di quest’acqua torbida e sporca. L’ultima effrazione della domanda che scrive di suo pugno, nel più completo sgomento, questa frase come sul bordo di un testamento: la Reliquia è solo un’ombra di identità.
Ora, questa cosa che splende davanti ai nostri occhi chiusa in una teca, chiusa in una scatola che ne aumenta il desiderio, reclusa da quella propria lingua che pezzo a pezzo l’ha smembrata, ci mostra la propria orlatura così accurata da sembrare un accecante sole meridiano. L’orlo che la barda da tutti i confini del campo immaginario, la espone finalmente con il suo blasone: la potenza di sconfiggere il vuoto con l’ignoto del proprio nome. Splendente in un sarcofago costellato di luci, glorificata in una tomba trasparente, in questo reliquiario costruito per farla risalire da quel cuore che non le appartiene più, noi finalmente la osserviamo nel silenzio proteso e contratto, nel silenzio che annuncia il giubilo per la sua nuova nascita e la miseria di questo scavare nelle tenebre. E più si lascia cullare dalle nostre attenzioni più il silenzio cresce, si addensa e si deposita come un dialogo feroce e inarticolato sulle nostre labbra; le morde, le scuote fino all’inciampo di un eco che confonde la sorgente delle parole, la provenienza della voce; le scuote fino all’evento più strano e più fragile: l’esperienza dell’estraneità, l’esperienza dell’estraneo nella vicinanza. L’incendio della nostra infinita adorazione.
Si confronti:
M. Blanchot: L’Entretien infini
G. Deleuze: Qu’est-ce que l’acte de création?
M. Foucault: Littérature et langue
Photo by James Best