Saracino | Brucia l’aria
A volte le storie si manifestano perché evocate dalla peculiare essenza di un paesaggio e da una lingua che di quel paesaggio è emanazione, contatto, istinto; altre volte, è come se giacessero sotterraneamente nelle irrequietezze della memoria e, quando finalmente vengono alla luce, la fatica, la solitudine e il nutrimento di quel che hanno accumulato in clandestinità si rivelano attraverso una sorta di rendiconto, una spirale di cause ed effetti che in qualche modo si rincorrono e si fronteggiano, per un ciclico ed estenuante inseguimento.
Entrambi i casi sembrano caratterizzare le pagine di “Brucia l’aria”, libro scritto da Omar Di Monopoli, di recente edito dalla casa editrice Feltrinelli.
La trama è densa di nomi ed eventi che variano il loro andamento: talvolta allineato, in una progressione compiuta, anche lenta; altre volte immerso nella fugacità degli scatti, delle sequenze animate e sincrone alla drammaticità delle azioni commesse. Sullo sfondo, una Puglia dalla bellezza graffiata, cresciuta nelle morse dell’illegalità, della malavita e di un generale disamore incarnitosi come ritrattistica stanca sui volti e le pieghe dei corpi protagonisti.
Un nuovo acquario, come l’autore stesso una volta ha definito il mondo limbico e circolare delle sue storie, dove a muoversi sono uomini disfatti, meschini, dipendenti e violati, senz’altro aperti alle ferite di una visione alterata dell’esistenza da cui sale un lezzo di violenza e di morte.
Irrisolta e carica di ombre, la sospesa incompiutezza dei personaggi aderisce ai luoghi claustrofobici di una piccola landa votata alla criminalità, al desiderio di potere, all’appropriazione avida di denaro e ugualmente al suo ridondante sperpero. Pure, affianco alla consunzione di scene narrate opprimenti e angoscianti, che sono state collocate tra i generi Noir, Western, Southern Gothic, ogni personaggio ha qualcosa di umanamente spiazzante: una debolezza improvvisa, una luce vaga, un’ansia remota di vita. Qualcosa che alla lunga ha a che fare col perdono, come un candido impaccio o un’isola di compassione.
Su tutto, la sensuale, accesa brace del cielo pugliese, la campagna affrescata sulle sue volte disperate, sofferenti come il caso che talvolta irrompe ottuso e preclude sogni, antichi amori, ambizioni tappate, simili a fondi di bottiglia riversi nell’immondizia.
Scorre esclusiva e determinante la marca caratteristica dell’autore, certamente la lingua: ricercatissima, calata da un drappo in disuso, tirata allo spasimo della sua inusualità per diventare essa stessa soggetto della storia o narrazione dentro la narrazione, alterità e singolarità dentro cui si disperdono gli umori e gli incidenti delle anime di questo romanzo: vaganti, perse, senza voce, periferiche come il dolore.