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Saracino | La vita delle litoranee

In inverno, le litoranee vivono un’esistenza particolare. Non la vita estiva dei giorni accerchiati, sottomessi, affollati, ma la lunga e distesa maturità della durata, che appassisce nel cuore degli istanti, sgranati come pietre da una collana di antica appartenenza.
La costa ionica, quella che si origina dal lungomare di Taranto e che poi continua ininterrotta fino a Torre Colimena, avamposto del basso Salento, è abitata da molte casette di architettura e materiali diversi. Discontinue forme le vestono e le svestono di costanti mutazioni. Una genetica difforme sembra le abbia generate. Sorte tra la sabbia e l’asfalto, una bellezza stravagante le caratterizza sulla strada fiancheggiata dal mare.
Il mare delle litoranee d’inverno è in un goffo accordo con queste costruzioni occasionali, nate come seconde case, soggiorni estivi, isole residenziali per spiagge abbarbicate sulla stagione del turismo. Tuttavia, è proprio la disarmonia che modifica le impressioni, cambia radicalmente le certezze, appanna la sicurezza di avere in pugno ogni risposta. Perciò, guardare alle litoranee invernali e al popolo delle casette disposte senza un nesso estetico può far nascere un’idea sul mondo, del mondo o una storia personale, che offra la visione, il permesso di esserci.

A parlare davvero di mare, inverno e abbandono possono essere solo i poeti. Nessuno più di loro sa che la parola cresce e matura nella cavità dell’interstizio, dove il movimento non riguarda solo ciò che è in vita, ma forse e soprattutto ciò che meno respira. Giacché è nel non respiro il flusso delle cose apparenti e il merito delle potenzialità. Il potenziale vive nelle case sulle litoranee, d’inverno.

Proviamo a entrare in una di queste: un corridoio oscurato dalle serrande chiuse ci accoglierà. Un pavimento marrone, forse brutto, antiquato. Qualche irruvidita macchia sui muri, lo scirocco alle spalle: andiamo verso la cucina. È il luogo in cui d’estate i ragazzi arrivano coi loro sandali bagnati, accerchiano le madri, inzuppano il pane nel sugo, portano la sabbia nelle stanze. È il luogo dell’incontro, delle ore più calde, dove si infiammano i visi trascinati da un’abbronzatura che è anch’essa istante. Le magliette sono state abbandonate sulle sedie a sdraio, le feste serali sono imminenti.
D’inverno la cucina resta un antro sconosciuto, misterioso di ombre e sovrastorie che sembrano decantare alla finestra dell’enigma. È d’inverno che la stasi infonde una partitura volta a celare il senso della temporalità e l’aria stessa si fa immobile dimensione di nostalgia.
Percorrere con il corpo la stanza bagnata dall’umido, muoversi tra i mobili e gli utensili, là dove nessuna umanità mette piede da mesi e correre in mezzo all’immaginazione rischiando di sentirsi soli, più abbandonati di prima, confusi nel participio presente di quelle sensazioni che non cessano di palpitare e farti sentire non più vivo, non più morto.
Ma è questa l’oscura poesia della casa: il suo sublime deserto. Ogni deserto clandestinamente accenna alla volontà di trasformarsi. Emette dei suoni, si fa sentire, è vigile. L’importante è stare attenti, non distrarsi, comunicare il vero dentro alla sommessa parola che nasce dall’interno di sé. Ogni parola nasce, cresce e muore per amore di condivisione. Ogni parola che sia reale filiazione di un linguaggio autentico e naturale si rivela per potersi concedere e smembrarsi, pur restando integra nella sua essenza originaria. Ogni parola ambisce a penetrare e a spingere l’aria, fino a spezzarla in mete di significato le cui emissioni di movimento e calore giungono nell’altro come estasi di comprensione, accoglienza, fiducia. Ogni deserto è pieno di una lingua che attende d’essere agita e rincorsa nello scambio di più solitudini che si incontrano fino a gemellarsi in un rapporto umano e spartito, volutamente siglato da una possibile unione di intenti.
Nelle sere d’inverno, le litoranee accendono i fuochi fatui del loro corpo sotterrato; il linguaggio splende di una presenza che non arretra, che anzi avanza sulle incipienti verità, mentre il vento chiede di essere ascoltato, almeno per un momento.
[…]


Foto di Nathan Dumlao

 

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