Saracino | L’evento
Può la memoria alterare i fatti avvenuti, le esperienze rincorse, le estasi avvinte da un velo che tutto copre? Può essere che un dato avvenimento, nel processo degli anni, si arresti di fronte a una forza maggiore, molto più grande e potente, in grado di riavvolgere il nastro ma in un modo diverso? Certamente sì, se concediamo alla memoria il lusso di spaventarci, rimetterci in moto, destarci, inquietarci, sbalordirci. Perché, forse, uno degli effetti meno banali della memoria è proprio questo: pungere e farci rientrare nelle stanze della vita traverso porte che pensavamo essere chiuse. Non si tratta di una memoria derivativa, terapeutica, soccorrevole. Anzi si tratta di una memoria distruttiva e malinconica, che si adatta al chiuso di noi stessi, riformandolo, richiamandolo a sé, scorgendone i tranelli, le congetture, i mascheramenti. Ogni tanto, guardandoci allo specchio potremmo scorgerla. È una memoria linfatica, esatta, partecipe della nostra stessa fisionomia. Non riguarda l’immagine riflessa; riguarda l’esatta consistenza di chi siamo, e pure non siamo. Si direbbe che è una memoria fatta di recrudescenze, smottamenti, sintomi di infedeltà. Forse, la creatura enorme dei nostri tempi andati, il solitario monumento che sorge sulla piazza dei nostri sentimenti sprecati. Ma un fatto è pur vero: nella somma eterogenea dei noi stessi che siamo stati o saremmo stati, la memoria resta un testamento di verità, una sorta di scusa a cui tornare, quando ogni cosa pare cospargerci di difficoltà.
Può accadere di leggere un libro di Annie Ernaux, L’événement, ed entrare nella sua memoria, fatta di risvolti che mostrano l’occorrenza e l’irrimediabilità della scrittura. Può succedere di affidare al ricordo di un evento drammatico della propria vita la responsabilità di farsi segno e incidente sulla pagina, quella pagina rivolta al dominio del passato che apparentemente non può più nuocere ma che in verità si sta già ricreando nel grembo misterioso di un imminente presente.
L’événement non è l’esclusiva storia di un aborto voluto, cercato e ottenuto (quello della protagonista). È pure la narrazione degli anni che si interpongono tra le azioni misteriose che compiamo, quando ad ognuna di esse concediamo il controllo o l’abbandono dei nostri gesti. Ed è anche il racconto dei cambiamenti che ne conseguono, del volere a tutti i costi fermarci, talvolta; avanzare, in altri casi. E nel frammezzo, nel tentativo vano di fare un passo avanti ed uno indietro, la cenere enfatica della nostra malinconia, della nostra ostinata autoseduzione che ci spinge – come l’autore, come lo scrittore – a scrivere, decifrare, travestirci da vivi per proseguire nel buio della morte. Forse, allora, il vero evento risiede nel passaggio che ogni piccolo cambiamento di noi riesce a depositare sul tempo corrente. Siamo pronti a proseguire, quando una strada è impercorribile e l’ingegno delle nostre tristezze ci convoca con la sua brutale capacità di reinventarsi? Siamo pronti ad abortire le nostre aspettative per il sacrificio di compierne delle altre? L’evento non ha risposte da darci. L’aborto di cui si narra è fatto dei tanti minimi microaborti che la vita ci costringe a cercare, per il tentativo di sopravvivere a noi stessi e a quel rifugio che talvolta ci ostiniamo a costruire. Nella lunga sequela dei fatti narrati, l’Ernaux passa, col suo solito incantevole timbro di luce diaristica, col suo passo di indagine sensuale e leale, dove non c’è spazio per chi vince o fallisce, ma solo per chi guarda alle cose con la destrezza e l’ispirazione dell’istante in cui si svelano.