Saracino | Ogni vita e ogni sorte
Se prosa e poesia si incontrano, si misurano, a palmo a palmo seguono le orme di un’unità che le rende sorelle e sodali, quel che ne deriva è una sorta di corpo mitologico e ancestrale, dotato di una organica fisicità profondamente intrinseca alle porte della visione e della sua imminente rivelazione. Ne può nascere un libro che è preistoria e lunga narrazione, istantanea ispirazione ma pure racconto e rallentamento; viaggio a piedi e improvvisa estasi; turbamento, assalto, eccesso, pacatezza e sostegno. Ne nasce “L’Impero che si tace”, il più recente lavoro della poetessa Ilaria Seclì, pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore nel novembre del 2019.
Anzitutto, cos’è un Impero? La vastità e al contempo l’indeclinabilità di una terra. Ma pure la percezione inviolabile di un’inclinazione che, dapprima appartata, deve accogliere in sé la fatica di schiudersi e venire al mondo. Superando la scorta dei pregiudizi e delle prudenze, deve insomma sfuggire alla tentazione di trovare riparo e deve osare un viaggio nelle suggestioni dello sguardo che insiste, tenacemente scava, affonda nella rammemorazione, correndo il rischio di tutto il patimento, assommando alla mitezza dei ricordi le percussioni del congedo, della perdita, dello spaesamento, dell’imprevisto.
Questo libro, che esula da classificazioni di genere, è in verità una somma di libri. Aprendolo, l’Impero si tace in una lingua di sensi che mirano a parlare nuovamente. Il nuovo che lo veste è la carica materna di un grembo che sta custodendo i segni della vita aperta. Pagina dopo pagina, un febbrile concepimento che mira a raccogliere del mondo il suo Impero, ovvero ciò che lo sguardo tempestivo dell’autrice osserva ed offre in un almanacco di ricordi che sono anche testimonianza di un presente destinato a diventare tutt’uno col suo tempo.
Questo libro, inclassificabile per troppa bellezza e straripamento di immagini, è largamente scandito da lancette stupite ed incantate; è l’arsenale di una sensibilità che si spinge oltre la curiosità delle definizioni; è comunione, volontà di accoglimento, poi elargizione, donazione.
Inseguiamo allora la vita dell’autrice, le città che ha visitato, il campionario di voci e volti che ha incontrato: entriamo nei luoghi abitati, descritti col piglio di una corrispondenza che ascolta, si imbeve, assimila e poi ritorna nella fuga degli interstizi, dove tutte le cose veramente appaiono chiare, riconciliate. Pagina dopo pagina, brevi paragrafi e un corredo di fotografie (scattate da lei stessa) che ci conducono a Trieste, a Grado, a Lecce, nelle contrade del Salento, in Alsazia, a Parigi, Milano, Praga, Cividale del Friuli, per certe arie mediterranee che albergano dormienti o viandanti, per certe sincronie tra mappe geografiche che esplodono al riguardo delle cartografie e che ambiscono, invece, ad essere ovunque.
Esiste la geografia dei veri poeti. Non è mai misurabile, non è circoscrivibile. L’autrice vi si muove con la leggerezza di un volo, passa, si sofferma, riprende la strada, sparisce, si esilia, ritorna. Il suo corpo, così matericamente attaccato alla vita, è anche ciò che resta del passaggio, della sfumatura del passo: è un corpo in ascolto, proteso, ma mai passivo, mai indifferente, talvolta in fuga, talvolta sospeso. Comunque vigile.
Un’opera dell’ovunque. Una sorta di diario metamorfico, specchiato, catartico nell’immaginifica nebbia di ciò che, quanto più è nascosto, tanto meglio appare. Talvolta la palpebra si apre e vede, lo sguardo scruta, entra nel corridoio senza pareti, si destina al contatto con le cose; altre volte la palpebra si richiude e alla realtà va congiungendo la dimensione del sogno, quella onirica delle tracce invisibili, della letteratura dei maestri, della poesia imbiancata di canti corali, sentimenti dei vivi e dei morti, risate e pianti, dalla sorgente alla foce: tutti qui sono chiamati in causa. Tutte le cose del creato sono chiamate a una responsabilità di ascolto e partecipazione:
“Tocca all’aria farsi celestina, quel dove non consuma, quel che può velare e scopre di un fatto che si ostina, un fatto che non muore”.
Un breviario sensuale, ripulito dalle parole stanche, andanti, dell’ovvio e del superfluo. Una piazza larga quanto un cuore che dentro vi si riscaldi. Un diario che non è solo personale, si diceva. Nel libro intervengono le persone incontrate o amate dall’autrice. Nominate, sempre riecheggiate, animano la sfera dei verbi, degli aggettivi, dei sostantivi, dei toponimi, reali o fantastici, della maturità narrativa che caratterizza lo stile del libro. Ogni vita e ogni sorte sono scandagliati dall’occhio a cui non sfugge il senso della compartecipazione:
“I binari delle finestre sono sospesi, non c’è gravità che incenerisca. Lo spazio è d’ambra e oro, azzurra la traiettoria delle cose, calma e infinita”.
A parlare sono anche le cose: le stanze, i treni, i tombini, le gallerie, i campanili, i “paesi sommersi”, i cieli, le sedie di paglia, i gradini delle chiese, i boschi, i tram, gli alberghi, “braccia di Aleph” che non a caso l’autrice accoglie per la prima volta in compagnia della madre, camminandole affianco, nella stagione degli atti integri di mistero: l’infanzia, quel tempo che ci bacia in fronte e segna i clamori e le radici di ogni futuro vincolo.
Ogni paragrafo de L’Impero che si tace è il tassello di una terra colma di percezioni che sotterraneamente sfiancano di passione il lettore, il quale, immedesimandosi al massimo in una volontà di congiunzione, pre-sente assieme all’autrice il sospetto che l’amore sia esattamente questo: un totalizzante progetto votivo e di compenetrazione con il mondo, un’accecante e straordinaria adesione con quanto resta in vita, malgrado le ombre, le contraddizioni, i dissapori e le mutevolezze.
“Ma uguale non sei a nessuna. Lo dice il richiamo che arriva ovunque si vada, anche nel Nord delle fiabe amate a perenne devozione di un intatto immaginario. Anche lì arrivi e uncini. Perché tu sei tutto questo, il sogno di ogni creatura”.
Un libro di richiami. Un almanacco, un diario, un breviario, una lettera spedita da un camaleontico tempo incalcolabile; una liturgia di frastagliate ascendenze che culminano nella dimensione del meraviglioso, dove ogni cosa può accadere e ridondare, concedersi o sottrarsi.
Questi movimenti “a guardia dell’eterno” sono possibili grazie ai poeti. Solo un poeta può avvicinarsi alle lingue di fuoco che i giorni spandono senza resa. Solo un poeta sa catalizzare dentro di sé l’ubiquità tragica del troppo sentire, del troppo cercare, del troppo domandare. La Sapienza gli è amica, la Speranza una virtù che lo sorregge a braccetto nella didascalia del mondo che lo sovrasta.
Nella bellissima “Rose”, è l’Impero delle piccole cose, forse, il centro nodale della questione. La questione che riguarda il possibile dell’umanità, il saper cercare e trovare oltre ogni riduzione, oltre ogni semplificazione.
“Ho scordato le rose sul treno. C’era una musica lenta e aspra, di limoni inaciditi e sansa.
Porto sul vestito a fiori il sorriso e la serenità di mia nonna. Fazzoletti neri sulla testa, grani di rosario, litanie. Monetine di qualche città a cui ho dato passi e sorrisi, l’odore di uva e botti tra Via Siena e via Tripoli, prima di salutare i vecchi all’ombra di una rimessa con le volte a stella. Lì, su sedie di paglia impera la pace del pomeriggio fino a sera tarda. Mia madre con aghi e cotone a guardia dei silenzi delle sieste. La sua bambina vende stoffe, mercanteggia sul prezzo, inventa canti per le piante del giardino.”
Esiste allora un suono imperiale che anticipa le mosse? Sì, forse si annida nella prima età della nostra vita. Ci visita, ci passa accanto, ci carezza la testa. È il regno indiscusso di quanto avverrà, la specie del silenzio, il turbamento e l’occasione. È l’impero che si tace, si guarda allo specchio, si volta e si fa forma in quelle piccole cose che poi, palmo a palmo, diverranno la partitura e il senso delle grandi.