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Talarico | Leggendo Buonomo

Leggendo Cara catastrofe di Felicia Buonomo


 

Nasce con un proposito impegnativo Cara catastrofe (Miraggi Edizioni, 2020), opera prima in versi della giornalista Felicia Buonomo: quello di raccontare, testimoniare e denunciare le storie di abusi sulle donne ad opera degli uomini, dei loro compagni, dei loro mariti.

Il libro si articola in tre sezioni, che si aprono rispettivamente con altrettante citazioni. Questa caratteristica, in aggiunta e in simbiosi alle tematiche del libro, ci aiuta a far anzitutto luce su un tratto rilevante dell’opera e delle ragioni della scrittura dell’autrice. I capitoli dell’opera si allacciano infatti alle citazioni d’apertura, con le quali l’autrice sembra voler instaurare un continuum, un dialogo, una relazione, così come le relazioni (anche se disfunzionali) e il tema dell’Altro, sono il soggetto di questo libro.

La prima sezione, intitolata Cara catastrofe, è scritta e pensata come se fosse un diario in versi, un giornale notturno, dove il termine «catastrofe» prende il posto del più innocuo «diario». È su questo gioco semantico, sul filo sottile di innocenza e di contrasto che la Buonomo va a gettare le basi per la sua opera, fondandola proprio su questa idiosincrasia che ha già in sé il quotidiano, il confidenziale e il brutale che l’idea di un diario catastrofico richiama.

«Cara catastrofe,/ / m’innamori» (pp. 11), è l’incipit deflagrante di questo libro, i primi due versi in assoluto, ai quali l’autrice assegna il compito di principiare e condensare forse l’intera opera. In questi versi ermetici è contenuto già tutto l’impatto ossimorico del titolo, ma potenziato ed esemplificato dal verbo e dal pronome, che chiarisce immediatamente la natura complicata, passivo-riflessiva e dipendente di un rapporto malato.

La scelta diaristica di iniziare tutte le poesie di questo primo capitolo col verso «Cara catastrofe» va a delineare da un lato la natura sequenziale degli scritti, dall’altro a sottolineare quell’abitudine comune dell’infanzia, trattenendone e facendone rivivere quello sguardo delicato, puro e incantato («Io credo solo agli incantesimi», pp. 11), quell’approcciarsi confidente, disarmato e ingenuo che va a contrastare con la lucida crudezza delle descrizioni riportate.

una poesia lineare, magra di aggettivi e trucchi retorici, rapida, spoglia (in tutti i sensi, verrebbe da dire con amarezza). Il verso è libero, non ci sono enjambement e, non volendo considerare gli incipit sempre uguali del capitolo d’apertura, non ci sono nemmeno strofe a spezzare anche solo il ritmo, l’incedere di questo confessionale; mentre, stilisticamente parlando, il dire quasi apatico, quasi dissociato di queste pagine oltre a evitare un sovrappiù emozionale, rivela e incarna verosimilmente anche l’appiattimento emotivo di chi diviene vittima e in quella condizione si è abituato a stare. Vede bene infatti la poetessa Gabriella Grasso quando, a proposito del libro di Felicia Buonomo, parla di «una lingua aderente al suo oggetto, ma al tempo stesso evocativa, non meramente mimetica», opponendo la tematica cruda e magmatica di Cara Catastrofe a uno stile fermo, onesto, pragmatico. Ma asimmetrico non è solo il rapporto stile-tema, lo è anche l’amore di queste pagine. Eppure, la questione davvero interessante è l’equilibrio che rende possibile questa asimmetria, ovvero la dipendenza complice (pp. 42, pp. 44) che si instaura tra le parti come fosse una sindrome di Stoccolma, come se il disastro fosse l’unico luogo noto e perciò vivibile («Cara catastrofe,/ / mi dichiaro orfana di parole./ Corro sul tuo balcone. / Dove ogni angolo è casa», pp. 15) a cui tributare il proprio rispetto (pp. 18). E se la coppia, in quanto fondamento della famiglia, è la prima delle società, che «La volontà di potere e la volontà di sottomissione sono interconnesse» ― come sostiene Hannah Arendt nel saggio socio-politico Sulla violenza ―, diviene una realtà tristemente sovrapponibile, scomoda, delicata e incredibilmente complessa da comprendere e risolvere.

L’opera di Felicia Buonomo arriva però a toccare i confini più estremi del discorso, fino a poter essere addirittura rovesciata e letta come un’epica degli sconfitti, dei dimenticati, dei muti, degli improvvisati al barbarico palco della vita:

«Cara catastrofe,

guardarti è come entrare in scena,

senza aver mai provato la parte.

Improvviso, inciampo,

goffamente mi rialzo.
E di nuovo inciampo.
Nei tuoi occhi, il mio sold out.
Non c’è spazio per replicare.
E io continuo a improvvisare» (pp 19).

La seconda sezione, Corpo, nasce direttamente dall’esperienza giornalistica dell’autrice, che qui trasla e s’immedesima nei muti per dar loro un’altra voce, per farsi la donna delle donne che ha incontrato e assimilato. Questa è forse la sezione più dura, più schietta, la più fisica, la più livida. Salta subito agli occhi però un paradosso: la confidenza quasi ingenua che nel primo capitolo veniva riservata alla personalizzazione della Catastrofe è qui un lontano ricordo, al confronto della scarsa intimità e dell’estraneità dell’amore reale, corporeo, che qui ha con il tu dell’uomo a cui si rivolge.

«Sono una giornalista
e nel mio nome c’è una promessa,
che mi insemina di colpa.
Ieri gli italiani sono andati a votare.
Ho fatto una diretta televisiva.
Penso al modo in cui rincorro le persone, come se fossero qualcuno,
e non un ammasso di parole
semanticamente ordinate secondo l’alfabeto della mia indifferenza emotiva.
Sfrutto le loro storie per guadagnarmi il pane, e non ho neanche fame di vita» (pp. 27).

Felicia Buonomo sembra non gloriarsi di questa sua missione, non si erge a portavoce su nessun pulpito. Parlando della sua professione fa luce, per vie traverse, anche su qualcosa che riguarda la poesia. E con limpido cinismo, con furore autodistruttivo (e con immenso rispetto per le vite di cui parla), ci svela tra le righe una cosa mai abbastanza dichiarata: il potere creativo sì, ma anche l’assenza di pudore dietro una poesia: «Da quando ti ho incontrato/ la mia vita/ procede per sottrazione./ Mi hai portato via/ l’amore per l’amore,/ la fiducia verso la parola,/ la complicità di un abbraccio./ E anche questi immeritati versi/ aggiungono alla tua vita/ la bellezza di cui mi privi./ Ora mi vendo a buon mercato/ nella piazza della tua rivoluzione./ Mi conto come unica ferita» (pp. 36).

L’io dell’autrice si scompone, si fa empatico, rivive («I segni rossi sul collo/ sono l’ultimo ricordo che ho di me», pp. 32), ma in questo isolamento responsabile (pp. 55) che rimanda alla crocifissione (pp. 45, pp. 49) ― e del cristianesimo ha anche l’eredità del senso di colpa ―, in questo naufragare di sentimenti contraddittori non è dato spazio alla rabbia. La voce narrante analizza, scava e critica soprattutto sé e, anzi, in un monologo interiore che non prevede risposte, si confronta continuamente coi pensieri del suo carnefice, in una dipendenza che è anzitutto cerebrale e figlia di profonde insicurezze («copulare è da sempre/ il metro della mia bellezza», pp. 60). Così qui non si hanno boati, e se un’esplosione c’è, è stata fatta detonare in alto mare. Indicativo come anche la violenza sofferta non è mai in atto, né in divenire, non sanguina, non sbava, non brucia. È solo la cicatrice, l’ematoma, il ricordo afono e lontano di un’assenza congelata in un continuo passato.

Nel terzo e ultimo capitolo, Sinceramente tua, l’autrice sembra voler operare uno spostamento catabasico dalla vulnerabilità dell’epidermide a una tutta emotiva. Se è vero che si hanno ventate di sarcasmo (pp. 81) e cinismo («È quasi un anno che ti sbaglio», pp. 71), è pur vero che sono sempre orientate a sé, sempre autodistruttive e mai definitive, mai capaci comunque di risolvere, di tagliare questo cordone ombelicale, bloccate forse dal timore che «se uno dei due vince è la fine per entrambi» (Harvey Wheeler, The Strategic Calculators).

Cara catastrofe è un libro dal quale in realtà non si dovrebbero cogliere estratti, per non indebolirlo. Per essere un’opera di poesia, c’è infatti l’insolita fatica di una trama. Ma anche i componimenti si legano l’un l’altro, tramite il ripetersi di determinati termini, di lampi disseminati che si accendono e si ripresentano, creando un passaparola che ci guida nella lettura. Il libro infatti ha in sé la potenza di una architettura unitaria, quasi monotematica, che di pagina in pagina valanga, portando dietro sé i testi e le emozioni precedenti. E di nuovo tutto ciò non è solamente un’accortezza stilistica, ma in questo franare crescendosi addosso di una valanga, c’è probabilmente il rivivere quel carcere di una relazione sbagliata che si protrae senza fughe e si accumula, e che non a caso può prendere in prestito la terminologia marziale, dove il semplice lasciarsi implica un disertare (pp. 84) e dove a far male è ormai la luce (pp. 43) senza una voce capace di guarire «le ferite dell’aria» (Ilarie Voronca, Punto).

Dice bene il postfatore però: questo è un libro da cui non possiamo nasconderci. Perché una catastrofe non è un fatto che riguarda il singolo individuo, ma la collettività. Perché ci chiama ad essere responsabili, perché smuove e coinvolge, e ci chiede di risponderne, anche fosse solo nell’afona realtà odierna di una recensione di poesia.

«Non è il tocco livido a fare male,
ma il ricordo del suo alone.
Dormiamo insieme ogni notte,
ma è nella crepa che dovrai recuperarmi.
Fai piano, che anche la luce è dolore,
dopo la culla di un buio così violento» (pp. 43).

 


Cara Catastrofe | Felicia Buonomo | Miraggi Edizioni | 2020

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