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Talarico | Leggendo Gallo

Scrivere in verticale. Leggendo Beccodilepre di Sergio Gallo


Beccodilepre (pp. 115, puntoacapo, 2019) di Sergio Gallo raccoglie al suo interno una selezione di testi delle sue ultime tre pubblicazioni, oltre ad una serie di inediti di un ventaglio temporale di quasi una decade. L’opera, tutta incentrata sulla montagna e i suoi silenziosi insegnamenti, è suddivisa anatomicamente e allegoricamente in cinque sezioni, che s’intitolano rispettivamente: Testa, Spalla, Costola, Dente e Piedi. Ad aprire questa discesa è il Dante del Purgatorio e un preludio in prosa in cui l’autore, «come uno scalzo Elia», s’inerpica «su per la montagna (…), non preoccupandosi che l’attendeva – ben più perigliosa e infida – la discesa» (pp. 11), e nel quale, chiarendoci forse così l’ordine discendente della disposizione anatomica dei capitoli, ricorda la sua prima ascesa: «una chiamata tardiva, ma irrinunciabile» (pp. 13), che ha poi aperto le danze segnando il suo futuro di escursionista e il presente di questo libro.

Quest’opera atipica ospita una poesia pensata come il bagaglio di chi fa escursione: semplice, pratico e leggero, lo stretto indispensabile, il necessario. Non ci sono nette velleità poetiche, piuttosto c’è il tentativo di raccontare una poesia che c’è, preesistente, tangibile e viva: la montagna.

Già dalla prima sezione si evince la solida impronta di matrice scientifica dell’autore (seppure, quantomeno dalle citazioni, si possano avvertire influenze di alcuni classici della letteratura), il quale con competenze di botanica, biologia, geologia e zoologia, descrive con la precisione tagliente della terminologia scientifico-accademica, i «luoghi di vita inaspettata» (pp. 19) della flora e della fauna d’alta quota, con le loro presenze sfuggenti ed essenziali. Qui regna il dinamismo dell’appunto fugace. Il punto di vista, vivendo ancor più che studiando la natura e gli animali, spesso si inverte, o se non altro si amplia, arricchendosi dei benefici di una maggior consapevolezza. Così accade ad esempio all’escursionista, ricordandoci l’umanità attenta dell’etologia di Konrad Lorenz, nell’osservare i comportamenti della fauna nel proprio ambiente naturale, in un capovolgimento empatico con l’animale-preda dell’osservatore-predatore (pp. 20):

Ecco risuona lo squittio delle marmotte, suadenti verticali sentinelle.
Avvertono della presenza d’un pericolo.

Ascoltiamo il grido d’allarme dei paffuti roditori:
siamo noi, quel pericolo.

Il passo di Gallo tra legni e minerali è prudente e via via più esperto, ma sopra ogni cosa rispettoso. L’autore in montagna entra in una dimensione altra e l’escursionista-scalatore ne diviene in qualche modo il sacerdote. «La cima è un sacro tempio», una «culla dove il tempo / cessa di esistere» (pp. 23). Questo luogo di annullamento temporale ci collega a un passo di Mircea Eliade, che estrapolato in maniera coatta da Il mito dell’eterno ritorno, ci può forse aiutare a delineare la figura di Sergio Gallo: «(…) se non gli si accorda nessuna attenzione, il tempo non esiste, anzi, là dove diventa percettibile (…) il tempo può essere annullato. (…) La vita dell’uomo arcaico (…) anche se si svolge nel tempo non ne porta il peso, non ne registra l’irreversibilità (…). Come il mistico, come l’uomo religioso in generale, il primitivo vive in un continuo presente». Il nostro autore riconosce che «per l’anima / è necessario / contemplare» (pp. 24) e «lo spettacolo delle montagne» diviene o si manifesta per quello che è: «indispensabile» (pp. 24).

Il libro passa quindi alla seconda sezione. Qui vengono vissuti e rivissuti momenti di escursioni e scalate. Lo stile è tra il racconto di viaggio e il documentario. Sono annotazioni di ciò che s’è visto, che si ricorda, che si è appreso e immagazzinato. La montagna è il maestro, l’escursionista il discepolo. Ma non ci sono verità rivelate, se una verità c’è è il cammino stesso, la montagna per intero. Attraverso difficoltà, cadute, fallimenti e scivoloni, reali quanto allegorici, l’autore e un compagno di scalata si ritrovano anche in situazioni estreme «paralizzati dalla paura, ma disperatamente / attaccati alla vita» (pp. 33), riecheggiando prepotentemente la poesia Veglia di Ungaretti (poiché l’esperienza totalizzante della paura e della morte in montagna, non è poi tanto diversa da quella della guerra di trincea, o della morte in ogni dove). Usciti poi dalla situazione di emergenza di una possibile caduta in un precipizio, la morte non viene superata né sconfitta, ma «un passo oltre, la voragine rimane ad attenderci» (pp. 34): l’incontro inevitabile infatti può solo essere posticipato.

Le esperienze e gli incontri d’alta quota sono svariati, e la tensione di determinate situazione conosce anche la distensione di momenti più leggeri. Si fantastica ad esempio su incontri forse troppo fugaci con «una bionda amazzone / i seni tesi e sodi, le cosce possenti» (pp. 36), la quale strada dopo essersi brevemente incrociata con quella di Gallo e di un suo compare, segue per il suo corso senza lasciare tracce ma solo ipotesi (alla stessa maniera, sebbene di taglio decisamente meno romantico, di A una passante di Baudelaire).

I versi risultano molto irregolari. Sono frastagliati come rocce, sentieri tortuosi, profili di montagne. Il lirismo è tenuto a bada da una rispettosa e appassionata intenzione di riportare un tutto, composto di bellezze e fatiche, nient’altro che per quello che è.

Questo rispetto sfocia spesso in una sorta di timore reverenziale, perché la cima non è un qualcosa che può essere assediato, ma un qualcosa che tutt’al più può lasciarsi conquistare (pp. 40), senza mai perdere comunque un necessario pragmatismo (pp. 42):

(…) Non c’è più tempo per cercare un senso o se stessi. Per intense meditate preghiere o ardite invocazioni al Creatore.

Solo forse per qualche fuggevole lode agli impolverati scarponi,
a ultratecnologici bastoni (…).

Segue la sezione Costola, nella quale la prevalente protagonista è la fauna che abita le montagne. Non c’è animale che non possa essere qui cantato. Ci sono camosci e rapaci, insetti, rettili e roditori. Il capitolo si apre con l’invocazione di una “preda” con la poesia Il volo nuziale delle aquile, e dacché in natura non può esistere squilibrio, segue, solo poche pagine dopo, la preghiera di una preda-predatrice (pp. 54). È a chiusura di questo capitolo che il poeta, immaginando la propria morte in una scarpata, delinea quello che sembra una sorta di testamento (non a caso la poesia vanta la citazione epico-lirica de Il testamento del capitano, poi divenuto un canto molto popolare della tradizione alpina). Questo però non è un normale testamento, anche se probabilmente è uno dei più naturalistici. I beni dell’autore («lingua», «occhi», «polmoni», «capelli», «lacrime», «ossa», ecc.) vengono spartiti tra i vari eredi («lepidotteri», «cuculi», «mosche», «cornacchie», ecc.), e l’anima, molto laicamente, non viene assegnata a pretestuose Muse o pseudo-divinità, ma alla grande Terra e a un pudico crostaceo detritivoro (pp. 60).

Il penultimo capitolo è forse il più vario. Discorsi su ideali, fede, morte e botanica si intrecciano confondendo i loro contorni. Giunti a questo punto, anzitutto anagrafico, ci si guarda anche indietro: «le memorie / sono ormai morene» (pp. 67), riaffiorando e subendo loro stesse processi di sedimentazione e stratificazione, come il suolo stesso delle montagne da cui spesso vanno ad attingere. Gallo resta certo che «la Natura, pur offesa / tra incanti ed asprezze mostra / l’unica via di salvezza» (pp 70), anche se «è necessaria la finzione / per la comprensione / della realtà» (pp. 77). Ed è nei contrasti di questa stessa poesia, dove pochi versi più avanti dichiara che «nessuna liturgia, superstizioso / cerimoniale, virtuoso prete / potranno mai sgrezzare / le impurità della mia fede» (pp. 78), che ci viene in mente un parallelismo, già semplicemente per la contrizione e l’ambientazione rocciosa, con le intense Tentazioni di Sant’Antonio del pittore Domenico Morelli.

L’ultimo capitolo, quasi interamente composto di inediti, tira per certi versi le somme. Le conclusioni a cui arriva sono molto probabilmente le stesse motivazioni che hanno spinto l’autore, più o meno consciamente, a rispondere alla primissima chiamata in apertura del libro. Ma ora di certo più consapevolmente. Gallo riconosce che evadere dalla «irrespirabile pianura /(…) è indispensabile» ammettendo però che «la fatica dell’ascesa da sola / non basta a espiare colpe» (pp. 85) e che «non inganni si vorrebbero, / né complesse chiavi di lettura. / Non lati esoterici, né rosari / dalle formule oscure. Solo / una meta da raggiungere (…)» (pp. 86). Ognuno in fin dei conti non deve far altro che entrare «nel suo perfetto inghiottitoio» (pp. 91), e trovare la strada che più si confà al proprio essere in questo mondo, arrampicandosi se necessario «per impervie vie ferrate», come «l’autentica poesia / sulla scorza del miocardio» (pp. 104).

 

 


“Beccodilepre” di Sergio Gallo | pp. 115 | puntoacapo | 2019.

Comments (2)

  • Sergio Gallo

    Grazie Dario, bellissima recensione che denota una lettura assai approfondita dei testi. Ciò è veramente raro oggigiorno. Spero che anche le mie raccolte future siano all’altezza di essere lette ed esaminate con questa attenzione. Sergio Gallo

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  • sergio gallo

    Ringrazio di cuore Dario Talarico per l’analisi approfondita alla mia raccolta. Sergio Gallo

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