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Talarico | Leggendo Rizzo

Scrittura come incrocio: leggendo “Addio ai platani” di Antonella Rizzo


C’è qualcosa di invidiabile e prezioso in chi per sé ha il dono di aspettare. Così è per Antonella Rizzo col suo Addio ai platani – minima raccolta poetica di 33 vite (Oistros, 2020). Un’opera prima, questa, a lungo ragionata, sedimentata, e per questo anche già matura, pronta e precisa, oltre che priva di sbavature e tipiche ingenuità. Quando si parla di poesia, si parla anche troppo spesso di urgenza e, forse, mai abbastanza di attesa, di silenzi, della spinta inversa incapace alla resa che ritorna ossessivamente sulle parole, che le lascia depositare per poterle poi rivedere controluce, per criticarle, per ripulirle, per cancellarle. Il parto creativo probabilmente, il lampo e l’intuizione, come la genesi della poesia sono urgenza, ma per avverarsi occorre che si metabolizzi il paradosso di un’urgenza paziente. Antonella Rizzo questo lo sa, e lo dimostra con questa sua pubblicazione. Se a ciò si aggiunge l’inusitato sforzo della sintesi – le “sole” 33 vite che corrispondono agli altrettanti componimenti della raccolta – ecco che allora questo libro nella sua magrezza, nella sua veste spoglia, si mostra come simbolo di essenzialità, o per dirlo con le parole di Giulio Ferroni, come esempio di una ecologia del pensiero e della scrittura.

La poesia dell’autrice, sin dal titolo, si affaccia su un baratro. Quello dell’addio, del commiato dovuto, della partenza e quindi anche delle radici, della casa, della concretezza e della ripartenza. Dalle origini nel suo Salento, a Milano e a Trieste, dall’Europa all’Africa, la Rizzo si muove, non solo a parole, in una scrittura materica, lucida e autocritica, che al suo interno fonde l’amore con il nulla, e l’impegno civile ed etico con una mistica personalissima.

SEI MORTO, DIO

Una mattina d’aprile
in un giorno dispari
in un’ora tonda e sporca.
Ti dicevo parole di ferro
che non potevo limare
e si facevano carne in un cielo tagliato. Sei morto in un giorno di vigilia quando la festa è quasi prossima.
Sei morto che non ero pronta
e sei morto lo stesso (pp. 15).

Comincia così, con questa poesia, la prima delle 33 vite (che rappresentano forse altrettanti squarci, altrettanti addii, altrettante rinascite e prove di volo). L’inizio, o forse meglio l’iniziazione, nell’autrice si mostra come frattura, abbandono, crisi e dunque opportunità. Questo Dio morto, questo padre, questa idea, rimandano necessariamente a Nietzsche, anche se qui, il lutto viene vissuto come un fatto estremamente intimo, prima ancora che idealizzabile. Il suo intimo però non scade nel personale, ma si rivolge a una profondità e a una nudità che tutti accomuna. Questo è il primo addio o il più primitivo, quello che coglie sempre l’essere umano ancora bambino, a prescindere dalla sua età. Ma non è un addio esterno, è un addio privato, anzitutto rivolto al bambino che era e che non potrà più essere. Alla creatura autentica e fragile che dovrà far posto alla successiva metamorfosi, questa volta più corazzata, più vigorosa, più adatta, centrata e al contempo a sé lontana.

Qui non succede niente.

Non può succedere niente.

Tutto è audace qui.

Audace è andare

audace è stare
audace è il niente che qui succede (pp. 17).

María Zambrano, in Filosofia e poesia, sostiene che la filosofia sia in realtà la vera storia, ovvero ciò che di decisivo accade all’uomo, differenziandola in ciò dalla poesia che invece «manifesta ciò che l’uomo è, senza che nulla gli sia accaduto». La Rizzo però ne sottolinea immancabilmente la natura più profonda e atemporale, e lo fa spersonalizzandola, detronando il concetto da una visione prettamente antropocentrica. Il quasi mantra che ripete le parole «qui», «è», «niente» e «audace», riesce a caricare il testo senza appesantirlo e in questa spersonalizzazione non si ha l’assenza, né l’anonimato, ma la presenza più assoluta di un universale, che nel non-nome ci parla e chiama uno ad uno.

Una delle caratteristiche più peculiari della scrittura di Antonella Rizzo è però un nomadismo – anzitutto stilistico – che non è mera migrazione geografica, ma osmosi di linguaggi e usanze. Questa è una scrittura che ha abitato i suoi luoghi affinché il viaggio non sia fuga, ma esperienza di un altrove, incontro e auto- riconoscimento nell’altro che già siamo. Dalle viscere della metropoli, Baudelaire è stato tra i primi a cantare di un uomo senza cittadinanza, apolide nella sua essenza, e straniato dal contesto urbano tanto più questi ha la pretesa dell’efficienza e di bastare a sé. Così accade all’autrice, ospite di una Milano frenetica quanto desertica (pp. 24, pp. 29), nel ritrovarsi alla continua ricerca di uno stimolo, di una finestra, di un luogo nuovo e antico, vero e aperto, mantenendo sempre nel suo vagare la punta del compasso dentro di sé. Sinisgalli, nel suo Furor mathematicus, diceva: «Gli uomini diventati errabondi, come le lumache si porteranno la casa addosso (…). Gli altri, i sedentari, i cittadini, le moltitudini dei serventi e degli scribi, si abitueranno sempre più a vivere nelle scatole». Ma in questa casa, che nel nomadismo l’uomo-lumaca si porta addosso, non c’è solo un posto in cui sostare. C’è il patrimonio di una vita e di quelle che l’hanno preceduta, ci sono le radici, la traccia e il richiamo di una terra e di un mare che Antonella Rizzo si porta dietro, testimoniandole e contaminandole in incroci sempre nuovi e produttivi, per ricreare infine «un’etnografia del quotidiano», come l’autrice stessa la definisce. E in questa continua trasfusione, dalla sua ha forse il critico Alfonso Berardinelli, il quale, in una conferenza del 1988, riconosceva che «la poesia moderna è moderna in quanto cosmopolitica, ma è poesia in quanto provinciale».

Tu non sai, uomo. Io ho tradito,
io ho portato
oltre la vita,

oltre le parole,
oltre ogni peccato,
oltre ogni regola,
oltre ogni velo.
Cosa dici al tuo Dio ora? Inshallah?
Tu non sai,
credi a me.
Io parlo al tuo Dio. Desidero,
corro,
mento,
me ne frego.
Io e il tuo Dio, uomo, sappiamo più di te. As-salam aleikum. Amen.

 

La contaminazione a tutto tondo, infatti, riguarda anche la fede. In questa poesia dal titolo Dea (pp. 32), la visione religiosa particolare viene superata e palesata nell’ultimo verso, in un misticismo poliglotta e confidenziale che, come in Rûmî o Silesius, sa rivolgersi al suo Dio solo dandogli del tu, come rivolgendosi a un suo pari. Ma la stessa confidenza ritorna anche nel corporeo, con una femminilità complementare alla precedente ma altrettanto consapevole, in una poesia dove l’amato e l’amore, si tramutano in una visione tanto panico-cosmica, quanto sensuale e terrea:

Le arance, compro le arance!

Aspettami seduto e scalzo
dove i baci sono più buoni,
dove quel giorno il cielo era nero e cattivo

e devota ho detto.

Le arance, ecco le arance!

Bacio i tuoi piedi come radici, la notte sbuccio i tuoi giorni,

al mattino raccolgo ogni cosa perché tutto ricominci,

perché il cielo sia ancòra (pp. 28).

Il libro dedica anche una porzione non indifferente di sé a una sensibilità che è rivolta alle minoranze, alla violenza, agli esclusi. Qui la scrittura dell’autrice si confronta con altre sfumature della natura umana e non rinuncia a parlare di guerra e di fame, anche se, come sempre, di una guerra e di una fame assolute, senza tempo e senza dove. «La guerra dei sazi» (pp. 23) di cui ci parla, è un paradosso di rara saggezza e lucidità, ma al contempo risulta anche sconfortante nella sua realtà così luminosa e concreta. Per essere capace di questi accostamenti, la parola di Antonella Rizzo deve farsi soprattutto scrittura di analisi, di scavo e osservazione, puntuta e meticolosa, pur senza perdere mai un approccio avvolgente ed empatico. Un esempio su tutti è sicuramente la storia di Ibrahim (e di sua madre), probabilmente una delle poesie più riuscite dell’intera raccolta. Qui, affrontando una tematica attuale come quella dei profughi costretti ad imbarcarsi, quella che viene raccontata è una delle troppe storie di naufragio a cui rischiamo di abituarci, relegandole a un pallido anonimato. Tuttavia, per quanto attuale, il taglio non potrebbe essere meno giornalistico. Ci viene solo detto che la barca diviene «legno», «orfano» anch’esso, testimonianza muta in «un porto chiuso». Ma non esiste una data, non c’è latitudine né longitudine, non sappiamo la provenienza esatta dell’imbarcazione e tanto meno la sua destinazione. Non sappiamo un numero, non ci è dato quantificare. Sappiamo solo un nome. Ed è come se l’autrice con questi versi volesse donarci non un fatto, ma un archetipo. Se Jaques Lacan infatti affermava che l’amore è sempre e solo amore per il Nome, qui Ibrahim viene assurto a nome e volto di un intero fenomeno antropologico, storico e sociale, e il suo nome diviene nome per tutti coloro che l’hanno perso in mare. Per un istante, per il tempo di una poesia, Ibrahim sarà e sarà per tutti: poi, anche il suo nome si scioglierà con le sue lettere nell’acqua, fra le fenditure della storia.

IBRAHIM, CANTA!

Dopo la pioggia Ibrahim prese soldi muti e sua madre cadde nel blu.
La storia è rotta nei canti del mare,
ha racconti finiti quel giorno.

Un legno orfano
galleggia piano sull’acqua di un porto chiuso.

Dopo la pioggia nessun nome è storia (pp. 47).

 

Questa sarà la fine di ogni lampo, di ogni poesia, di ogni libro. Questo, infine, ci toccherà tutti, che lo si voglia o meno.

Ma Antonella Rizzo non fa la morale. Addio ai platani è un libro tanto distante da pigli cattedratici, quanto affine a un autentico sentire del quotidiano, che diffida delle soluzioni facili e di quelle pretenziose. La sua scrittura si muove soprattutto in orizzontale, senza svolazzi, in una sintassi coerente, discreta ed equilibrata in grado di dosare l’aggettivo, la stasi e il turbinio di immagini e significati. Con un verso che si distende sul senso senza particolari spezzature, e col suo ritmo ponderato ma non privo di impreviste impennate o chiose emblematiche, ci accompagna per mano verso la vera ricchezza sotterranea a queste pagine: la commistione vibrante tra contesto metropolitano, esotico e privato, tra mondo naturale, passionalità e impegno etico-civile, tra crudezza e delicata intimità, tra l’osservazione così minuziosa e dettagliata dell’istante, del particolare, del verace, del quotidiano, e i temi assoluti e senza tempo, raccontati e testimoniati sempre e rigorosamente senza coordinate di valore, senza alto né basso. Con spontaneità, come ogni vita vera, in perenne tensione tra andare e restare, tra ostinato coraggio, feroce solitudine e umana fragilità.

 


 

 


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