Saracino | L’aria Interminabile
Alcuni poeti, tra i più sensuali e impavidi del verso, sanno cos’è il movimento tragico e splendido di un corpo. Conoscono l’evento per averlo saputo annotare, prima che sulla carta, dentro alla sintesi del loro cuore liquescente; hanno celebrato il bisogno di descriverlo nella minuzia di un candore che irrompe nel tempo e lo attraversa riemergendo dall’aria, anzi dalla forra che l’aria tagliata recide in due parti. Chi “passa” e agita la mano o ancheggia o usa il corpo per penetrare la contingenza dello spazio esterno a sé, in qualche modo frange gli estremi dell’eternità e raggiunge per pochi brevi lampi l’intensità dell’interminabile.
Alcune volte, questo eccesso di potenza che il corpo può scatenare e scomporre si manifesta anche nel cinema. E c’è un regista a noi contemporaneo che riesce a rendere l’idea. È cinese, si chiama Wong Kar-wai (1958) ed è maestro di seduzione. Una seduzione intuitiva, slegata dai modelli, libera ma non per questo poco attenta, anzi guardinga, vigile, prossima a uno stile, a una scelta, a una deliberata consapevolezza.
Ogni suo film, di là dalla trama che ne tratteggia il contesto, cornice più che dimostrazione e storia, è una celebrazione del corpo, inteso come spostamento tra i significati, direzione che orienta lo spazio per declassificare, scuotere, rimestare la realtà traendola dalla parte della visione, della estremizzazione dell’immagine.
I suoi attori danzano la scena, interpretano esattamente il corpo che patiscono, sono efferati sognatori del fugace. I personaggi si muovono sul palco dell’effimero, il loro passo è lieve sulla superficie che gronda luci e atmosfere di estrazione inattuale, antica, indecifrata. Anche l’amore, spesso attraversato dalle congetture e dai misteri a cui ansiosamente conduce e traghetta i suoi esecutori, diviene il tema-pretesto per dare voce a un lirismo che interviene direttamente sul prevedibile e lo scatena, lo sgretola, lo rimpasta. I mondi di Wong Kar-wai sono attrattivi e non dialogano: assurgono a ispirazione e pathos, i quali a loro volta erodono la vita e la consumano sotto il peso di presenze sceniche che adoperano il corpo per comunicare. Così, la torsione del petto di un uomo che fuma e il nuvolo della sigaretta che svampa nell’aria dicono, più d’ogni altro discorso, che il tempo è franato e il rimpianto inizia; così, l’ancheggiare sinuoso e felpato di una donna che sfugge ad ogni racconto è l’incipit incessante di un dolore senza rimedio. Persino le musiche, le luci e i drappeggi degli ambienti rispondono a questa cosmogonia di percezioni: sono creature viventi, puntualmente definitive eppure incessantemente votate alla caducità. Nell’indeterminato fluire delle immagini, ogni parte del corpo degli attori non è abbandonata al caso: il collo di una donna volge nel vuoto, il suo corpo esile ruota come un astro sul letto, il suo fondoschiena disegnato e perfetto si muove per le scale di un antro mentre fuori qualcosa “accade”. Gli uomini sono altrettanto carichi e pieni di una grazia che li rivela testimoni di odori, sensazioni, effrazioni e memoria infissi nella pelle. Nessun intellettualismo, nessun perbenismo, nessuna gentilezza morale nei film di Wong Kar-wai. Solo il pieno e il vuoto del dramma della bellezza, della metamorfosi – forse – di tutte le rovine e dello stile, che – quando vince e si afferma – è certamente oggetto sessuale di grandezza e permanenza.
Featured Image by Melissa Askew