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Montorfano | Office at Night

Sembrerebbe una delle tante cartoline che negli anni ‘40 si trovavano per pubblicizzare questo o quel prodotto. Sarà per i colori o per le forme quasi caricaturali dei personaggi e degli oggetti, i primi tozzi e goffi nei loro vestiti, i secondi tracciati con l’intento di pura riproduzione, senza gli incendi improvvisi del colore che fanno vibrare l’anima mettendola in uno stato d’allarme. Ma continuando ad osservare e contando i tanti particolari che arricchiscono questo quadro, sbucano lentamente sotto i nostri occhi curiosi, dubbi e domande che annotano una strana fragilità dell’immagine allontanandola da una qualsiasi di quelle di propaganda che tendono a colonizzare il privato e a omogenizzarlo, avanzando invece verso l’illusione dell’identità di questo privato col mondo; una soddisfazione fittizia che nasconde un’oppressione reale è il risultato della loro azione combinata, una sorta di oscenità, di dubbio che si sporge tra gli angoli dell’ufficio e insinua sul nostro guardare l’ombra di ciò che sta nascosto. Non l’invisibile ma il rintanato. Non l’assente, ma il presente che dal nascondiglio in cui si è riparato ci guarda, ci spia. La regia che sta a monte della costruzione sembra organizzare a scopi spettacolari un qualcosa che viene spacciato esattamente come l’opposto: uno strumento di scatenata adesione al desiderio finalizzato alla propria soddisfazione.
Per comporre questa camera delle meraviglie, bisogna necessariamente disporre l’ordinario come intelaiatura della magia. Si getta del nero e si aspetta che gli occhi si abituino all’oscurità. Avvolti da questo buio inatteso, gli oggetti acuiscono il loro scopo: prima in un brusio, poi in un chiacchiericcio confuso, infine in una festosa confusione che si libera dei propri doveri e dell’accurata messa in scena di sé per sfregiare le regole ordinarie e tentare lo straordinario. Come il bambino si nasconde sotto le coperte del letto immaginandosi nel ventre della terra e, insieme alla propria paura, si spinge al limite delle lenzuola per assaporare la fine e il burrone, così l’adulto scende nel segreto di se stesso mantenendosi distante da ogni possibile decifrazione. Lontano dalle scosse dell’imprevedibile, sa che il sovvertimento è un piacere che brucia rapidamente e la trasgressione è un gioco dal delicato equilibrio tra durata e superamento.
Questo viaggio o questo gioco terribilmente serio in cui l’ordinario e lo straordinario si accarezzano fino a sfidarsi, nelle immagini è sempre composto attraverso un’apparente approssimazione. Le scene, o la scena, devono essere piene di smagliature, di presumibili falle registiche dove appaiono le tracce di un hic et nunc sfuggito al controllo, dove l’oscuro lascia il posto al patetico.
È attraverso queste incrinature che l’attenzione ipnotizzata può ricominciare a spostarsi e a intravedere il diverso; un viso, uno sguardo, l’arredamento, ombre dove non dovrebbero esserci ombre, campiture di colore troppo dense o troppo chiare, angoli tralasciati e altri eccessivamente curati, tutti particolari spia di una realtà che, malamente occultata da una regia sbrigativa, può venire ricostruita a partire da tali elementi. Particolari imprevedibili e marginali che sembrano gettati nel quadro e immortalati con superficialità o con trasandatezza. Così fatto, tutte queste cose potranno essere dimenticate oppure suggerire la somiglianza a spoglie pietose alle prese con un desiderio incapace di gestire una rappresentazione coerente con l’universo e che si sacrificano in pura perdita sul cadavere della storia per tentare di resuscitarla.
Ma è ancora poco per dire che qui c’è un vuoto o una lacuna, un gioco o un viaggio.
Certamente, l’articolazione di questo luogo ci sorprende, perché l’accumulo e l’immediatezza dell’immagine sembrano passare da un appello sommesso o una dichiarazione di divorzio tra sé e il proprio significato. Da sinistra a destra e da destra a sinistra, è tutto un fiorire di particolari e di azioni: la porta aperta e la tenda che si gonfia per un’imprevedibile corrente d’aria, l’angolo del foglio alla destra dell’uomo sollevato per una scossa del vento e un altro caduto a terra sotto la medesima scossa, il nero che occhieggia fuori dalla finestra e quello sopra il grande divisorio di legno. Poi la sedia con le sue forme morbide e la scrivania spigolosa e austera. Il pavimento verde segnato da piccole ombre che si increspano e fuggono dalla porta aperta. Il nero della macchina da scrivere con i suoi tasti argentati e il nero del grande schedario con le sue maniglie chiare e ordinate che si guardano in un divertito gioco delle parti dove il piccolo sfida il gigante mantenendo però distanza e sicurezza.

Via via che la nostra curiosità avanza, notiamo un accumulo di particolari, angoli bui e ironici nella narrativa dei contrari come un fiume che nasconde la febbre del proprio incedere nella turbolenza della profondità. Sorge il sospetto che queste zone annuncino con avidità uno strappo.

Guardo la donna avvolta nel suo vestito blu, semplice e schietto. I glutei robusti sporgono con forza e lo scollo, circondato dal casto colletto bianco, sembra ammiccare a qualcosa di più dell’ordinarietà. L’uomo e il suo corpo scompaiono dentro il completo formale. La giacca abbondante suggerisce un lavoratore medio, lontano dall’eleganza luminosa della borghesia americana e la sua dedizione occhieggia divertita dalla postura e da quell’essersi volutamente incastrato nell’angusto spazio della scrivania con le gambe strette tra le due cassettiere e il busto bloccato dal muro dietro di lui. Non si guardano. Non c’è dialogo. Solo i vestiti parlano, ricevono dal corpo i loro modi d’essere successivi, un proprio ordine anatomico. Troppo stretto quello della donna, troppo illuminato nelle zone che producono rossore in chi le guarda. I fianchi, il seno, colpiti dal pennello per assorbirli in una finta castità, un finto disinteresse o un timore che corre sulla pelle e contrae i muscoli. Anche la punta della scarpa dell’uomo che sbuca dal nero sotto la scrivania sembra presentarsi con una morale ambigua come se assistessimo a un piano di svestizione, di denudamento. Questi vestiti che lusingano la nostra curiosità, migrano dal campo delle cose al campo semiologico, diventano non solo espressione ma anche pura comunicazione.
Ma questa strana narrazione, a cui piace rovesciare le apparenze, non termina con la risonanza del vestiario. Un’impossibile luce bianca campeggia alle spalle dell’uomo in un grande rettangolo che si minimizza in un lacerto dove campeggia la donna. La luce debole e squadrata sulla scrivania fronteggia quella sul muro di cui non sappiamo nulla in merito alla fonte e alla provenienza se non scomodando il lessico delle apparenze dove l’impalpabile mescola perfidamente identità e somiglianza. L’ombra minuta della scrivania, a sinistra, punta versa il limbo della finestra.
La donna è schiacciata tra due neri: lo schedario, la macchina da scrivere. Due blocchi di nero che la bloccano, la trattengono.

Forse l’uomo alzerà la testa inseguendo la provenienza del vento e si soffermerà sulle fattezze della donna. Gli sguardi si incroceranno, si ritrarranno per pudore o per un ricordo impudico, una piega del tempo dove i due hanno sognato di abbracciarsi, di baciarsi. Seguendo questa storia, sentiamo la nostra bocca aprirsi in un sorriso. Il sorriso della malizia che getta sul quadro nuovi colori e nuove forme. Il pavimento è turbato ora dalla tempesta del cuore. Il suo verde è ormai un arrossamento. Una campitura disomogenea e vorticosa. L’ombrello appoggiato alla parete colpisce con il suo manico arrotondato e ci fa immaginare la sua punta. Tutti gli oggetti diventano erotici.

La sedia è pronta ad accogliere i glutei rotondi, a sentire il peso della schiena quando si inarca. Ciò che sembrava il prosieguo del giorno, trascinato suo malgrado nella notte, prende pieghe vorticose.
Il pavimento dell’ufficio ora si inclina verso destra, eccessivamente, pericolosamente e il piede destro della donna si appoggia sulla punta con decisione, quasi per fermare il corpo, per puntellarlo.
La malizia che ha tinto il nostro sguardo ora colora tutta la stanza e la cesella in un gioioso labirinto delle ambiguità.
Sì, succederà. Quel pavimento inclinato farà scivolare tutto contro la finestra. La donna cadrà tra le braccia dell’uomo che non potrà più trattenersi. L’accoglierà. La bacerà. Qualcosa in questo nitore si spezzerà. La malizia, l’osceno, l’erotico che lampeggiavano disordinati tra i vari bordi del quadro troveranno un posto e sbocceranno nella passione, nel fuoco che la storia ha sempre stralciato lasciando al romanzo rosa il piacere di narrarlo come il segreto incalcolabile e pericoloso delle nostre vite.
Il fuoco divampa. Rapido, inarginabile. Un fuoco alto, luminoso nella notte che scivola tra i letti. Il cuore palpita, le mani cercano, le bocche si incontrano. La notte con i suoi silenzi culla questo incendio e lo accoglie, lo protegge, lo spia da quella finestra che aggetta sulla città, su altri palazzi quieti. Divamperà, brucerà indizi e prove dei gesti consumati velocemente. Si spegnerà non appena tutta la cenere avrà toccato il suolo. Resterà solo il vento che passa da parte a parte rompendo l’imbarazzo di ciò che è stato, inghiottendo e liquidando l’erotismo come il semplice bordeggio del divertimento. E quando l’uomo e la donna si rivestiranno riprendendo il loro posto nel quadro, quando riassumeranno la loro postura e il loro vuoto, ci lasceranno un’ultima idea pericolosa, l’idea che l’ambiguo può diventare azione solo nel segreto delle voci che imbrogliano e si soffocano.


Painting by Edward Hopper | “Office at night” | 1940, Olio su tela, 56,4 x 63,8 cm. Minneapolis, Collection Walker Art Center.

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