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Aki Inomata | Think Evolution

L’ispirazione per Think Evolution # 1: Kiku-ishi (Ammonite) è il risultato della partecipazione di Inomata a una mostra presso l’Ambasciata di Francia a Tokyo nel 2009, intitolata No man’s land. La mostra è stata ispirata dal contratto di locazione per cinquant’anni del terreno su cui sorge l’ambasciata francese. Nel 2009 questo appezzamento di terreno è stato restituito al governo giapponese, che lo manterrà fino al 2059, momento in cui tornerà al governo francese per ulteriori cinquant’anni. L’assurdità di questo accordo ha ispirato la creazione di Why Not Hand Over a “Shelter” to Hermit Crabs?, 2009, che ha esaminato il pacifico scambio di conchiglie dei paguri mentre crescono. Inomata crede che questo fenomeno rappresenti una metafora del pacifico scambio di terre tra paesi. Per questo lavoro Inomata ha progettato nuovi gusci o rifugi a forma di iconici siti architettonici per fornire nuove case ai suoi granchi.

In quest’opera visuale, Aki Inomata raffigura l’incontro di un polpo con un guscio di ammonite ricreato in resina. Durante il processo di evoluzione il polpo ha scartato il suo guscio, ma la creatura possiede ancora l’istinto di proteggersi contro possibili aggressori abitando contenitori vuoti, come gusci di cocco e bivalvi. Secondo i reperti fossili, anche l’ammonite, lontano parente del polpo e del calamaro, un tempo abitava una conchiglia. Ispirata da questa storia evolutiva, Inomata ha creato un esperimento durante il quale ha posizionato un polpo con un guscio di ammonite fuso in resina.

Queste sono le coordinate iniziali per intraprendere il viaggio. Ma come in tutte le opere d’arte, il viaggio inizia quando diventiamo delicati esploratori scendendo nelle profondità dell’immagine per ritrovare la superficie grazie a un’emozione, brutale o delicata: la maieutica del segno che indica le cose con il loro dolore, insegnandoci a riconoscerle.

Allora in questo cuore pulsante, in queste sue cavità che ci suggeriscono qualcosa di diverso, di pericoloso e insieme tenero come una carica mediatrice tra il significato e l’illusione, qui dentro, nel segreto della scena, l’aneddoto è il polpo che ritrova casa, l’avvenimento è il rovesciamento dell’ordine naturale, l’evento a cui stiamo partecipando, è un punto sulla linea della storia evolutiva che un colpo di scalpello fa deragliare.

Lo spettacolo va in scena sorretto da un grande lenzuolo nero punteggiato di stelle che nel suo esordio rivela l’ambiguità che lo ammanta. Perché questo cielo non è la profondità dell’oceano né quello dello spazio. Il suono che percepiamo non appartiene né all’uno né all’altro ma simile a quello di un ruscello dove l’acqua rimbalza di pietra in pietra, accarezza la terra che inonda, mescola i sedimenti del fondale.

Lo sfondo su cui l’immagine prende contatto con la consistenza del pensiero e il suono attraverso il quale la scoperta sfiora la delicatezza della danza sono due provocazioni che tentano di forzare il blocco della rappresentazione strappandola al tempo cronico per sostituirla con qualcosa di ritardato e consacrato a una manifestazione ultima, un’epifania.

Ed ecco che la casa brilla davanti ai nostri occhi. Il nero le conferisce uno statuto assoluto e l’acqua che sentiamo scorrere riempie lo spazio assordante dell’universo come un rituale rassicurante. Un rituale che cancella l’elemento più disturbante: lo schiacciarsi dell’animale attraverso l’aperturadell’ammonite. Non c’è esplorazione ma occupazione. Non c’è aprire ma penetrare, l’impossessarsi di ciò che è inerme dove si confonde l’immobilità con il concedersi. Questa sovversione dell’istintoanimale votato più alla circospezione che alla curiosità consegna l’agire scenico all’esotismo, il primo stereotipo che ci allontana nel mondo del favoloso e del romanzesco.

L’abitare diventa prima di tutto un indossare, un coprirsi fino al punto di sovvertire lo status della casa che da “forma” diventa il “dare forma”. Come se i giochi dell’esclusione dell’umanità (il dentro è opposto al fuori) fossero stati reclusi per essere poi agiti in una forza di seduzione che vuole sconvolgere la profondità in un sapere che cancella tutte le opposizioni a vantaggio di un nuovo dire, di un nuovo  pensare.

Terzo. La trasparenza della casa racconta un’idiosincrasia: ciò che accoglie non cela, non copre, non protegge da occhi indiscreti, è un abito che ha smarrito la propria funzione. Certamente il polpo è ora coperto da qualcosa che mostra la propria durezza ma questo qualcosa dona protezione in un modo altamente singolare: offrendo agli occhi di tutti l’atto del proprio coprire e del proprio difendere. Proteggere perde un sinonimo per guadagnarne un altro indicibile: mostrare per declassare chi osserva per predare a semplice voyeur.

Quarto. Il buio smette di nascondere. E l’oscurità vive una nuova esistenza della propria totalità. Qui non c’è una semplice zona d’ombra o un chiaroscuro ma il nero che mostra il proprio spazio sconosciuto, la luce della propria oscurità. E l’abitare diventa una finestra illuminata nella notte che dedica a tutti il proprio interno, il proprio cuore confinato.

Questa storia allora si riduce a pochi termini, a pochi atti clamorosi e ad un’immensa felicità senza nome perché è solo la realizzazione di un fatto: ciascuno di loro, casa e polpo, conchiglia e animale, nella sventura o nell’esaltazione, riescono a non essere quasi nessuno. E questo, forse, è il segreto svelato, dell’accoglienza.

Japanese designer Aki Inomata re-created the shell of an ammonite (the octopus’s ancestor) using 3-D scanning and printing techniques. This octopus, named Mersi, took no more than a few minutes to recognize it as home and make it hers.

Moma | Museum of Modern Art

 

 

 

 

 

 


Photo by Jon Tyson on Unsplash

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