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D’Ugo | Addio

Se allontanandomi da casa dicessi la parola addio, Francesca penserebbe ad un non ritorno o, nel migliore dei casi, potrebbe sorridere come se avessi voglia di scherzare. Solamente a nominarla, questa parola, dà la sensazione di venire da un lontano passato o di proiettarsi ad un rimando, infinito futuro, un richiamo sentimentale amplificato al momento dell’incontro e a quello della separazione, come qualcosa che c’è da sempre e per sempre, ma vuoto di significato in questo determinato momento. La scrittura che la rappresenta, formata dai cerchi tondi e morbidi delle d e delle o, dalle vocali che la aprono e la chiudono come ad un prolungarsi orizzontale, le aste verticali al suo centro alzate come lance pronte a trafiggere, e il punto della i già distaccato dalla lettera e in traiettoria per colpire come un proiettile. È chiaro che un addio avvolge indissolubilmente ciò che viene a mancare, denota un interstizio di solitudine e silenzio a seguito di momenti intensi, preserva in sé un rammarico per una perdita di qualcuno o qualcosa che si allontana, qualcosa di noi. Si potrebbe dire che questa parola descriva una vera e propria tragedia e pronunciarla fa pensare a uno di quei romanzi di fine Ottocento carichi di straziante pathos, oppure, nel mio immaginario più roseo, riecheggia negli Harmony che leggevano molte signore quando ero ragazzino. Ma fa pensare anche a quegli addii giovanili, difficili da gestire, spesso sconsiderati, in una dimensione carica di confusione e utilizzati finanche contro noi stessi nella difficoltà di ritrovare una misura tra sé e l’oggetto del desiderio, uno spazio impalpabile e poco decifrabile quando desideri e realtà non dimorano nello stesso luogo.

Quegli incontri del “non sono come tu mi vuoi, non sei come io ti voglio” che vacillano tra la volontà e la ricerca di sé e il desiderio dell’altro e che portano a volte piuttosto l’assenza, omicidio-suicidio dei sentimenti e delle circostanze, dura e implacabile decisione con esercizio di potenza che sopprime il dialogo e la comprensione.

Nella misura degli addii si includono allora anche quelli con i nostri atteggiamenti e quelli degli altri, considerazioni profonde e prezzi da pagare. Nell’immaginario del nostro vivere, dove l’esperienza quotidiana si amalgama a quella del mondo di celluloide, non si possono non citare con un diversificato atto di partecipazione mentale quelli degli action movie americani, in cui l’addio viene sarcasticamente indirizzato al cattivo di turno mentre lo si fa sprofondare nell’abisso. L’addio e il suo utilizzo distruttivo, beffardo quanto sentito, in cui l’eroe non può che subire il colpo melanconico della scomparsa di colui he lo rende ciò che è, ovvero l’antieroe, perdendo parte di sé proprio nel momento della liberazione. Oppure possiamo pensare agli addii che chiudono i film in modo verosimile, dove non c’è un chiaro lieto fine, ma un rimandare le cose al futuro, un’infinita linea orizzontale di spazio e tempo.

 

 

 

Per degli adulti contemporanei pronunciare questa parola fa provare un certo senso di imbarazzo, prende le forme di una teatralità difficile da digerire e fa pensare ad un rapporto con il mondo che non permette troppe trasgressioni, in cui la linea temporale sembrerebbe sgretolarsi rispetto alla linea sequenziale della vita, indicherebbe situazioni interrotte. Nel nostro continuo presente che non trova fine è difficile trovare il posto ad un concetto che rischia di fuorviare il nostro immaginario quotidiano e che possiede il pericolo dell’astrazione. Ci spingerebbe a ricercare tracce, alzare lapidi o ancor peggio farci domande che non troverebbero risposta e, seppur la trovassero, avrebbe tutto il peso della sua mutevolezza, come se non ci fosse tempo per rielaborare la storia, assurgere la propria memoria a pensiero continuo, a opera di una vita. Le cose sono quello che sono: questo può essere vero e consolatorio, ma c’è sempre una controparte delle cose stesse. Attraverso questa parola si dipana un infinito mondo interiore di domande in sospeso e in continua evoluzione. Ogni addio conserva in sé un oceano di elementi sommersi e inclini a riattivarsi, un mondo di fantasmi che ci accompagnano nel presente e che fanno la loro entrata in scena anche quando non sono invitati. Perché tutto questo? Perché il vero addio trattiene sempre qualcosa di noi stessi, del nostro vissuto, qualcosa di talmente importante che ci accompagna nel presente e rompe i vetri della coscienza quando si sente chiamato in causa con motivazioni a volte per noi oscure al momento. Entrando nell’aspetto di questo carattere residuale i conti si fanno con sé stessi e se le parole sono quel che sono e possono subire l’influenza dell’atteggiamento o della moda del momento, l’impatto con la mente farà i conti coi concetti che quella parola esprimeva in un dato momento.

Non riconoscere l’importanza di un addio porta ad un disconoscimento della memoria e, come tale, ad un disconoscimento del presente e di noi stessi.

L’idea sommersa di qualcosa diventa oggetto ingombrante fine a sé stesso e non permette permanenti evoluzioni dell’anima: è un allontanarsi da sé, dalla propria identificazione, una negazione della realtà in cui il vile continuerà a vivere con viltà senza concedersi l’atto di coraggio per la necessaria conquista di uno sviluppo mentale ed emozionale, negazione di un dono a noi stessi al di là di uno spirito di parte, al di là di un Io autoreferenziale che guarda verso un vuoto oblio. La presa d’atto di un continuo sgretolamento è un viaggio ben oltre la speranza al termine delle cose, oltre un Io vulnerabile e mortale e, pur conservando sogni di libertà, desideri e passioni, è pronta a forgiarsi su di esse. È la riconoscenza che rimane parte essenziale ed esistenziale della nostra più profonda essenza. Il vero addio è sempre un atto d’amore, ci rende reduci e orfani e come tale siamo noi che rimaniamo in compagnia di qualcosa di interminabile che si protrae nel tempo e che ha tutta la traccia di un passato profondo, enigmatico, labirintico e intermittente. Nell’attesa di un adDio semantico che conserva e rilancia un tempo infinito, indefinito e di mistero, osservo allo specchio i segni sulla pelle, ricerco le intersezioni tra memoria e oblio, tra ciò che trattengo e ciò che mi sfugge, le tensioni e le pieghe del corpo, gli umori, l’universo nei miei occhi e considero ciò che ho perso e lasciato come vivo e che sempre mi appartiene e si trasforma ancora in un profondo addIo.


Image credits: “Il mio buio la tua luce ” – “Teatro Tragico” | Gino D’Ugo

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