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Grasso | I sintomi nascosti della vita e del linguaggio

La metafora della ricerca come incisione, scavo e restituzione alla luce di realtà profonde sotto forma di tracce, di indizi non è nuova alla riflessione filosofica e nemmeno alla pratica poetica. Nell’ultimo lavoro di Dario Talarico, “Autopsia (reiterata). Poema logico-filosofico” (Puntoacapo, 2022), questa indagine si compie, in modo alquanto singolare, attraverso un’operazione ‘autoptica’ condotta dall’autore su se stesso, su quella che definisce la propria ‘carcassa esausta’, un corpo che viene dissezionato e refertato nello sforzo di rintracciare “i sintomi nascosti della vita e del linguaggio”. Un corpo dunque, a dispetto di quanto detto, probabilmente ancora vivo (“nessun corpo è fermo”), ma quasi esanime. Attraverso tre passaggi fondamentali, denominati appunto ‘referti’ e legati ognuno ad un luogo e ad un anno (Bosco, 2015, Ospedale, 2019, Cigliolo, 2020) si snoda il dialogo-monologo dell’autore con se stesso, camuffato in un gioco di voci: quella narrante, fuori campo, nell’Anamnesi, quella dell’anatomopatologo che disseziona il corpo e si rivolge ad esso, quella autoriale-sapienziale che sembra indirizzarsi, con le sfumature del dubbio, a chi legge, nella consapevolezza di non poter offrire certezze: “di referto in referto lo spigolo delle ossa riaffiora, e la carne conservata offre sempre meno risposte”.
I risultati di questo scavo sono enunciati di pochi versi ciascuno, densi nella loro sinteticità, rigorosi nella loro formulazione, nei quali si condensano riflessioni espresse a volte sotto forma di proposizioni, altre di moniti, ma che sarebbe difficile definire aforismi, per l’atteggiamento per nulla ieratico di chi li pronuncia: “Stentare la parola che si inciela non certifica / il tuo dire – Non adoperarti allo squasso – / non adoperarti al lieve. Questo solo un poeta / deve sapere: il mestiere di chi parla è tacere”.

Sono testi dalla forma sorvegliatissima, in cui le scelte lessicali sono precise, volte alla chiarezza ma in certi casi anche ardite (il parasintetico dantesco ‘inciela’ ne è un esempio, così come alcuni termini settoriali, quali ‘scacchiare’ o ‘fresare’), i giochi dei significanti non sono mai casuali, le figure di suono e di posizione rispondono con coerenza alla tensione comunicativa dell’autore: assonanze, rime spesso in posizioni di chiusura, a suggellare un pensiero, anafore per metterlo progressivamente a fuoco, enjambment e uso dei trattini per creare pause che articolano e disarticolano strutture logiche e allo stesso tempo modulano un tessuto – morbido e musicale – di suoni e silenzi, parole e respiri.

Difficile definire questi brevi testi aforismi, dicevamo. Potrebbe trattarsi di enunciati non dichiarativi, secondo la terminologia aristotelica, ossia non del tutto riconducibili a schemi vero-falso, ma aperti, non conclusi, come accade in preghiera e in poesia o, nel caso contemplato dal linguista Chomsky, come in presenza di enunciati privi di senso. Quando filosofia e poesia si incontrano, può succedere questo.
La prospettiva infatti è duplice: da una parte quella della riflessione filosofica, come cammino impervio di costruzione-decostruzione di visioni e di significati; dall’altra, quella della letteratura, come esercizio quasi spietato, tecnico e disperato, di restituzione, nella tensione di comunicare e nella costatazione della propria afasia: “quante parole abortire – per fare / della lingua un linguaggio?” La scrittura è dunque un gesto forte, “la letteratura è ormai uno scambio di organi (…) uno sforzo contro natura, una dichiarazione di guerra alla propria specie”. Eppure, in questa operazione impossibile di “approdi senza rotta”, il pensiero trova la sua articolazione, non lineare, ma dicotomica e, nel complesso, spiraliforme, e la resa letteraria risulta limpida, armoniosa.
Le antinomie sono la chiave di volta di una struttura in cui “non ha affondo il sapere che non conosce / il suo contrario”; sono ricorrenti in tutta l’opera e oscillano sugli estremi opposti di stasi e cambiamento, nuovo ed eterno, pronunciarsi e silenzio, paradosso e verità. Sono polarità che non si escludono a vicenda, ma che anzi si richiamano, si rincorrono, talvolta si intrecciano tra loro, con movimenti che, mentre definiscono con la massima nitidezza possibile, aprono comunque alla problematicità, all’esercizio libero dell’interpretazione, alla possibilità.
Stasi e cambiamento, nuovo ed eterno caratterizzano la sezione Bosco, già presente, con qualche piccola variazione, nel libro precedente dello stesso autore, “Il coraggio di non lasciare il segno” (Puntoacapo, 2019). E’ stato proprio il bosco, a lungo frequentato da Talarico, che vi ha vissuto per alcuni anni, a “insegnarti che il tuo nulla / non ha niente di personale. – Non c’è una colpa / o una ragione. Dove il tuo niente è più profondo / vive tutto lo splendore di questo stare al mondo”. Da questa constatazione, maturata in verità a posteriori e contenuta nella sezione Cigliolo, si comprende il cammino di queste pagine: “Col fuoco non si torna indietro, / Non si torna indietro dalle parole. / Cambia in continuazione / solo chi non è mai”, poiché “ Non c’è altra contemporaneità che negli eterni / e il nuovo non è tale – se non rimane. / Come puoi smettere – di ereditare il cielo?” La ciclicità insita nella natura è emblematico segnale allo stesso tempo di movimento e di stasi: “Tutto finisce perché tutto inizia. / Non frugare fra le stelle, il cielo si ripete”.
L’altra polarità presente nella sezione riguarda l’appartenenza, da un lato, e la libertà dall’altro. Anche in questo caso non si tratta di opposti incompatibili, quanto piuttosto di facce di una stessa medaglia, inclinazioni di un’umanità che sente il bisogno di patrie, di bandiere, nella peggiore delle ipotesi di fazioni, ma che aspira anche a qualcosa di più ampio, che si innalzi oltre ogni tensione e ogni confine: “Guarda l’agnello fiaccare il latte della madre. / Guarda il fratello debole – morire di fame. / Il plesso solare della Terra resta a guardare. / Un sorso di veleno, uno sguardo alle stelle. / Perché disperarsi? Non troverai mai amore / più grande – del non essere di parte”.

La sezione Ospedale continua la riflessione sul vero, sulla necessità/impossibilità di definirlo, giocando sulle antinomie paradosso-verità: “Non esistono turisti della verità. /Quando tu cerchi la verità, la verità non c’è. / Quando trovi la verità, tu non ci sei” (parafrasando Epicuro), “Sii nudo tra il vero: solo chi vuole veramente / avere ragione – può veramente avere torto” e pronunciarsi-tacere: “Anche la volta dell’oceano necessita di un fondale. / E tu, senza un linguaggio – come pensi di pensare?” Quest’ultima dicotomia, poi, ne adombra un’altra, altrettanto essenziale: quella tra vivere e rinunciare “Pochi impavidi rischiano la loro vita / Pochissimi – rischiano di vivere”. Ed è il contatto con la malattia e con la morte ad acuire, paradossalmente, la vocazione sofferta alla vita: “Non puoi bere per non pisciare. / A quante morti vuoi resistere / – pur di non vivere?”.
Una nuova polarità si affaccia in questa sezione, quella tra il dolore da una parte e l’imperturbabilità (come condizione dell’universo, ma anche come aspirazione di chi patisce) dall’altra: “ E’ pericoloso capirlo: il dolore più denso / del mondo non allevia di un fiato l’infinito”, e ancora: “L’incapacità di mondare la morte reclama gloria, /reincarnazione e memoria. Tra i più grandi – qui / sono crollati. Ma riuscire a vedere la luce di una stella / spenta, ti ricorda quanto sei distante da quella”. Il dolore, però, è un’esperienza alla quale non si può sfuggire e si inscrive in una dimensione altra, che la trascende ( e forse, in un suo modo a noi oscuro, le dà un senso): “Annaffiati / nel pianto: ogni dolore – esige il suo silenzio, / ogni eternità – ha bisogno del suo tempo. –“

Nella terza sezione, Cigliolo, 2020, ritroviamo le linee principali attorno a cui si è sviluppato finora il pensiero dell’autore, che qui acquisiscono sfumature nuove e maggiore spessore: la contrapposizione nuovo-eterno alla luce della “vanitas vanitatum” (“Immortale è soltanto ciò che non è / indelebile. Le piramidi si spezzano, / la materia si sfarina. E l’infinito stare / della vita resterà ancora – in una scritta / a matita”), il gioco del paradosso e del vero, stavolta riferito alla fede (“Santo chi non sa il sacro. /Preserva la fede, o abiura / la visione: in Dio si crede / fintantoché non lo si vede”), l’oscillare tra parola e silenzio (“La frase è un refuso del bianco”), adesso che la riflessione sulle prerogative della parola – e dello scrivere – si fa, in questa parte del libro, più cogente e diventa, oltre che una ragione di scrittura, anche una ragione di vita. Uomo e artista coincidono nell’ineluttabilità di rispondere a una doppia vocazione – quella di vivere e di scrivere – e nella necessità della scelta. Infatti, “come anche morire, dire è restituire” e, indubbiamente, “la scrittura è una cosa seria / per questo è solo un gioco”. L’impegno nella ricerca di una parola che non sia esornativa, che aderisca al pensiero nella sua asciuttezza e nella sua verità coincide con lo sforzo di vivere nella consapevolezza del vuoto e nella coerenza con l’essenziale: “Non più di luce nel buio, non meno / di fiamma nel fuoco. Questo / è il tuo scopo: riempire il vuoto – col vuoto”. Non è uno sterile arrendersi al silenzio, quanto piuttosto un “portarlo a compimento”, sapendo che “ogni vuoto fa arte da tutte le parti / ma a nessuna arte è dato riempirlo”. Soffrendo, anche, per la violenza e l’inutilità sottese a ogni gesto di scrittura: “Risuona lontano dalle pagine il canto / della carta. E’ un’aria di fibre e di boschi, / di piogge e di luce. Lo senti lo strazio? / E’ il paradosso – di chi scrive sapendo / che non c’è libro che valga un albero”. Tenendo presente, infine, che è insensato “risalire la corrente della fama” e “gloriarsi di un’eternità tutta umana”, “se tutto / viene dal niente e il niente non è senza di te”.
E tuttavia l’artista non può esimersi dal dire, né l’uomo dal “porta(re) a compimento il silenzio da cui viene”. Si tratta allora di imparare la pazienza, il valore dell’attesa, la fatica e la sapienza di chi sa lasciare decantare, di chi sa cernere: “Aspetta – fino a dimenticare, e pubblica / solo ciò che non ti appartiene: scrivere / è soltanto affare – di chi sa cancellare”.
Vita e poesia si negano l’un l’altra, mentre restano indissolubilmente intrecciate, nell’ennesimo grande paradosso, nella più cruciale delle (pseudo)antinomie, quella più fertile, quella che ci dona opere come quest’ultima di Dario Talarico: “Puoi negarti alle parole, / ma non puoi sfuggirgli. / Se la vita non fosse stata mai – / una poesia l’avrebbe raccontata”.


“Autopsia (reiterata). Poema logico-filosofico” di Dario Talarico | Puntoacapo | 2022.

Photo by Jr Korpa

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