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Gullotta | Exfanzia di Valerio Magrelli

Uno dei principali errori in cui cadono i poeti, giovani e di esperienza, è quello di mettersi su un piedistallo inventato – perché non ha corrispondenza con la realtà – e sempre restando al di fuori di questa benedetta, povera realtà, massacrarla non in nome della visionarietà (che andrebbe benissimo) ma di falsa ostentazione, concetti volutamente incomprensibili che non arrivano da nessuna parte e non significano nulla, nemmeno un nonsense. Il poeta parla di cose che non conosce, esibisce la sua cultura, con timore reverenziale verso i maestri del passato. Ma in realtà anche la visionarietà si nutre di oggettività, e parte dal vero.
Tutto ci aspetteremmo da un uomo di cultura, un accademico, un professore universitario che ha tradotto Mallarmé, Valéry, Verlaine, che ha collaborato con i maggiori quotidiani nazionali, tranne che un totale ribaltamento di questo schema poetico. Valerio Magrelli nella sua ultima silloge Exfanzia abbandona idealmente i panni dello studioso e diventa una sorta di bandito, un fuorilegge, che osa trasformare il vero in visionario e non teme i poeti del passato. In realtà, l’autore non cancella la tradizione – nessuno di noi potrebbe farlo – come possiamo intuire dal rifermento a Saffo (Alla maniera di Saffo in Nugae) o da un certo spirito di riflessione rimbaldiana nella poesia Sul centauro: “È tutto un formicolìo/ di gambe e braccia:/ ma a che serve essere in tanti,/ se non posso essere uno?”
Anche nelle invettive, presenti in varie sezioni del libro, Magrelli interpreta in chiave moderna l’archetipo della poesia simposiale della Grecia arcaica, fermandosi però, al contrario di questa, prima dell’offesa, del turpiloquio. Le invettive dell’autore non sono mai volgari, mai troppo cariche, ma risultano comunque incisive, scuotono la coscienza del lettore; in alcuni testi, l’autore stesso sembra rassegnarsi intelligentemente alla incomprensibilità, alla stoltezza della vita che è un animale dal piccolo cervello. “E se fosse così? Ah che tragedia! / Inutile lamentarsi, allora./ Prego. / Accomodatevi pure.”
Nonostante la tendenza tutta italiana a crogiolarsi nel passato/avere timore reverenziale del passato, Valerio Magrelli ha una voce fresca, concreta ma brillante, un’intelligenza viva e attiva. Forse anche per questo motivo, la sua Exfanzia sembra al contrario un perenne stupore infantile o adolescenziale che travalica il tempo. In Exfanzia la vecchiaia è una sorta di sconfitta, di peso fisico; lo strabordare della conoscenza e dell’esperienza che goccia dopo goccia lasciano il corpo vuoto e vulnerabile.

Tuttavia, Magrelli pur non opponendo alcuna resistenza alla vecchiaia, pur dimostrando di essere ormai lontano, fuori, da quell’infanzia, da quella gioventù, paradossalmente distoglie da sé l’aridità e il cinismo, l’assenza di assoluti e di ideali, che accompagnano solitamente l’età adulta. Come se Valerio Magrelli padre guardasse crescere nel passato un Valerio Magrelli figlio.

L’autore coniuga momenti lirici molto elevati (“volo che è una bellezza/ nessun dolore,/ e poi guarda che luce, azzurra, oro”) ad altri momenti estremamente quotidiani, di vita vissuta, dove però è sempre presente una sorta di animismo, una personificazione degli oggetti (“Non farti mai guardare da una casa/ che hai denudato”) che ribadisce l’approccio immaginifico di Magrelli alla parola scritta, simile a quello di un bambino che si confronta con la dimensione “magica”, ultraterrena, il rifugio della fantasia.
In un’epoca, la nostra, in cui le raccolte di poesie sembrano seguire ritornelli consolatori ricorrenti, sostenuti da descrizioni della natura stereotipate, afflati sentimentali a buon mercato, ghirigori intellettuali di poco conto, Valerio Magrelli spiazza il lettore con la sua apparente semplicità, che è tutt’altro che lineare. In una dimensione che è rimasta ottocentesca, Exfanzia è un libro che parla di natura, di pensiero, di vita a ragion veduta, senza inutili ricami e in una luminosa modernità.
In verità però il poeta è anche condannato ad un’incomunicabilità che appartiene solo a chi non si trascina nella sofferenza, non perdona e non fa sconti al lettore. Perché mentre il mondo rincorre la sua sete di compassione, egli “senza poter fare nulla, se non patire,/ e udire, subire, inveire./ <<Ma mi state ascoltando?>>

 


Photo by Ryan Parker

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