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Gullotta | Solo un

Non prendetemi in giro, per favore. Mi chiamo Pirlo. So che Pirlo non è un nome. Lo so perché mio padre quando guarda in televisione le partite della Nazionale grida: “Forza Pirlo! Dai!” ma anche “Forza Balotelli!” e io so bene che Balotelli di nome fa Mario.
Papà non sa che leggo i giornali di nascosto. Lui crede che io sia, come si dice, un po’ ritardato. Ma mi parla per ore dell’aumento del prezzo della benzina, di donne evanescenti e delle tecniche migliori di pesca con l’amo.
Ad occhio e croce, dovrei essere già in età di frequentare il primo anno delle elementari ma Carlo, mio padre, si rifiuta categoricamente di mandarmici. Non mi spiega esplicitamente che sono inadatto, è troppo gentile per farlo. Nemmeno io, del resto, gliel’ho mai chiesto. Talvolta, durante una passeggiata insieme il sabato mattina incrociamo la strada di uno studente che torna da scuola, e si trascina con torpore uno zaino sulle spalle, tanto che sembra stia per essere inghiottito dall’asfalto. Ma io! Se fossi lui! Anche se più piccolo e minuto, andrei per la via a testa alta. Dio, quanto lo desidererei!
Ogni volta che compio gli anni, mio padre mi si avvicina come se avesse in serbo per me qualche favolosa sorpresa – e io prego che sia il mio primo libro di testo. Tiene le mani raccolte dietro la schiena, e io attendo. Piano piano comincia a srotolare le mani, con gioia le porge verso di me, e mi mostra quello che non è certo un regalo inaspettato: un pollo, o un pezzetto succoso di salsiccia. Pretende felicità da parte mia ed io, pur sentendomi totalmente floscio, tremante, pieno di rabbia, devo simulare entusiasmo perché, cavolo, lo so che mio padre fa un lavoro precario.
Succede che Carlo, a volte, diventi improvvisamente triste e siccome è sempre lui a farmi lunghi discorsi, si chiude in sé stesso e resta parecchie ore disteso sul divano, con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi chiusi come se fosse morto. Io una volta ho visto morire qualcuno, ero molto piccolo, quasi appena nato. Mentre passiamo davanti ad una costruzione triangolare e antica puntata verso il cielo come un missile, che suppongo si chiami chiesa, lui che non crede in nulla tranne che nello stipendio e nel discount, si blocca senza preavviso e una rude malinconia gli affina i lineamenti. Si mette a scrutare uno per uno i manifesti mortuari affissi al muro dell’edificio. È bello distinguerli fra loro: alcuni lineari e sobri, altri gotici e vistosi.
Mio padre non lo sa, ma sto imparando a leggere. Egli nonostante tutto è istruito. Non solo sa leggere e scrivere più che discretamente, ma mi è capitato di sorprenderlo mentre tirava fuori dal cassetto del comodino un libro massiccio intitolato Divina Commedia per Ragazzi. Ne legge qualche pagina quasi tutte le sere.
Quando Carlo vede gli annunci mortuari borbotta fra sé e sé “È morto anche il vecchio dei camion” oppure “Povero Michele, alla sua età!”. A me invece non interessa questo modo accademico di trattare la morte. Forse quando si è adulti si diventa capaci di interiorizzarla ed esorcizzarla, ma per me resta sempre qualcosa di sordo e istintivo. Lo stesso ricordo che ne ho mi fa paura.

All’epoca vivevo in quello che doveva essere stato il fienile di una fattoria. Eravamo una famigliola piuttosto povera; è probabile che avessi molti fratelli, perché ho imparato che le famiglie proletarie come la mia in genere hanno molti figli. Eravamo stipati insieme ad animali da cortile di ogni genere – oche, maiali, galline, conigli – che ci razzolavano intorno senza alcun pudore. In fondo, per quanto ricordo, non era una vita che disprezzavo: aveva i suoi momenti di dolcezza comunitaria.

“Nel suo riflesso” | Matita su carta | 2020

Una notte fredda, nel nostro fienile entrò un grosso gatto di strada. Si lanciò come una furia contro uno dei conigli, che sonnecchiava nervosamente ai nostri piedi. Io, personalmente, non ho mai amato particolarmente i conigli; li ho sempre ritenuti frivoli e inespressivi, occupati solo a crogiolarsi della propria bianchezza e batuffolosità.
Tuttavia, quel coniglio mi faceva tenerezza. Era minuscolo, non aveva ancora l’aria civettuola dei suoi compagni, non si rendeva ancora conto della propria bellezza, bianchezza e batuffolosità. Ci furono tanti schizzi rossi densi come la vernice che Carlo usa per dipingere il cancello. Due occhietti rossi erano diventati incandescenti dal terrore, e imploravano “Non io, io non ho alcuna qualità, non merito questo”. E davvero, non lo meritava. Poi, all’improvviso, quell’odore. Un odore acre e rugginoso. Si scatenò una gran confusione! Mi accorsi stranamente che dal pranzo non avevo ancora mangiato. Di solito lo stimolo della fame mi colpiva ben poco, ero troppo impegnato a scorrazzare nell’aia. Eppure, in quell’attimo, sentii che era una vera ingiustizia che dovessi soffrire la fame, e, soprattutto, avevo un appetito, ragazzi, un appetito sfrenato e avvolgente come una coperta, senza limiti, bianco rosso rosso rosso! Non lo sentivo solo tra i denti, ma anche nelle orecchie, nel naso, nelle ossa e più di tutto nel cervello. Era la morte e per me la morte, finché non ebbi la maturità per ragionare, fu appetito di vita.
Da qualche settimana però ho conosciuto una parola che mi inquieta più di morte. Questa parola è Dubbio.
Due settimane fa, dopo aver intrapreso un nuovo lavoro come apprendista, Carlo aveva invitato a casa nostra – per consolidare i rapporti, diceva lui – gli altri dipendenti della ditta. Io mi misi in un angolino buono buono. Nessuno, comunque, degli ospiti mi aveva degnato di attenzione, eccetto qualche pacca sulle spalle, e mi dimenticai di tutta quella confusione di voci, finché non mi addormentai con la testa posata sul bordo di un cuscino.
Mi destò dal sonno, ad un certo punto della serata, uno dei colleghi di mio padre, un uomo secco e asciutto col viso scolpito da solchi profondi come canyon, che esclamò, rivolgendosi verso di me: “Guarda che dolce il tuo Pirlo, lì nell’angolino, come scodinzola!”
Presumo di essere svenuto, perché mi risvegliai un bel po’di tempo dopo, sul letto. Le mie gambe erano troppo deboli, la mia mente troppo angosciata per reagire. Respiravo a fatica. Mi si ponevano due scelte: o constatare, nel Dubbio, ciò che era più logico, cioè che l’uomo mezzo ubriaco si era voluto prendere gioco di me, oppure non mi restava che morire per inedia. Non potevo tollerare che la mia esistenza potesse trascorrere immersa nella putrida palude del Dubbio.
Carlo non riusciva a dormire. Aprì il solito cassetto e con una segretezza nei movimenti che mi appariva fuori luogo, sfilò una fotografia schiacciata. Piangeva. Non si era nemmeno spogliato.

La mattina successiva quando mi alzai, Carlo stava mettendo le scarpe. Aveva un volto tirato che non gli avevo mai visto. Non mi versò neppure da bere, né mi diede il buongiorno come tutte le mattine. Mi accorsi che non era disperato né depresso, in verità. Sembrava tutto concentrato in spirito, come le anime disegnate sulla Divina Commedia. Disse, senza guardarmi: “Stamattina andiamo dalla tua mamma. Colei che ti ha voluto”.

“Spettro di cane” | Matita su carta | 2019

***
Attendevo mio padre sul sedile anteriore dell’auto da circa tre ore. Ritenevo disumano che non mi avesse portato con sé. Scrutai dal finestrino tutt’intorno, accuratamente, ma con mio estremo sollievo non c’era l’ombra di cucce o ciotole, e il cortile era estremamente ordinato. Appena arrivati, mio padre mi aveva indicato uno dei balconcini della facciata dove mi apparve in un raggio di sole ondeggiante come the, un’alta figura femminile coi capelli scuri, lunghi e lisci, l’unica macchia visibile nella cornice della finestra. Il suo volto, per quanto potevo osservare, non tradiva alcuna emozione, se non un vago senso di sopportazione. Restai tre ore nell’auto rovente. I miei occhi erano pieni di lacrime. Ero stato dimenticato sia da mio padre che da mia madre. Lei non l’avevo mai conosciuta; lui sì invece, e mi era stato sottratto da un fantasma bruno.
Quando Carlo rientrò era a pezzi, più di me. Vidi che piangeva, in modo costante e regolare. Estrasse la foto che aveva preso la notte precedente. La sua espressione era ridicola. Lui mi fissò: “Non è poi così bella vero?” Gli diedi ragione perché c’era qualcosa di volgare e incompiuto in quella carnagione slavata, il mento piccolo e sfuggente, i capelli che cadevano a piombo. Poi mi resi conto che stavo mentendo: la donna era molto bella. Tuttavia, era totalmente immersa in una Natura da paradiso terrestre, chiome radiose, fiori carnosi, cielo lucido. Fu allora che capii questa affermazione: gli uomini e le donne sono sempre più brutti della Natura. Accanto ad essa, in un modo o nell’altro, sfigurano sempre. Così provai pietà per mia madre, più di quanta ne provassi per Carlo. Intanto mio padre stava biascicando qualcosa, probabilmente mi dava spiegazioni – cielo! Avrà pur dovuto darmi spiegazioni. Ma io non lo ascoltavo più. Udii solo l’ultima frase, rivoltami con tono amaro: “Ma perché mi ostino a confidarti tutti i fatti miei, quando alla fine tu sei solo un…” E qui si interruppe come se stesse per dire una parolaccia. Oh, ma io avevo capito benissimo cosa intendeva! Mi sentii vibrante di oscura felicità. Intendeva dirmi: sei solo un bambino. Non mi importava. Magari: sei solo un bambino ritardato. Non mi importava. Mi girai di scatto e, come non facevo quasi mai, gli saltai in grembo premendogli la testa contro il petto, e baciandogli con affetto una mano.


Illustrations by Massimo Dagnino

Photo by Kenny Eliason

 

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