Montorfano | 10e25
È il 1980 e l’Italia langue ai bordi del decennio nero. La crisi economica, iniziata nel 1973, data dall’aumento del prezzo del petrolio e dalla scarsa disponibilità energetica, ha portato stagnazione e disoccupazione evidenziando i problemi strutturali del paese, come: l’assenza di una pianificazione strategica per l’energia; il blocco degli investimenti e la fuga di capitali da parte degli imprenditori in risposta al disordine delle fabbriche; governi in successione deboli e litigiosi, che portano alla manifestazione di quattro fenomeni ben conosciuti, ovvero inflazione alta, crescita del settore sommerso dell’economia, parziale diminuzione della produzione, aumento del disavanzo pubblico. La crisi economica che aveva tragicamente interrotto la grande ripresa dell’Italia post-bellica getta la società nel grande oceano dell’incertezza politica e sociale.
Sono gli anni del compromesso storico di Berlinguer e del suo fallimento; delle prime cocenti sconfitte sindacali, fino all’esemplare spaccatura del movimento operaio a Torino che porta un nuovo modello di relazioni industriali a vantaggio della dirigenza; dell’emancipazione e della coscientizzazione femminile, che conducono alla creazione di un movimento in lotta contro un mondo patriarcale e chiedono l’eliminazione della discriminazione sessuale nelle scuole e nel lavoro, il diritto di controllo verso il proprio corpo, il divorzio.
Gli anni ’70-‘80 sono il decennio della nascita dei gruppi rivoluzionari che, agendo dall’interno della società, vogliono mutare le coscienze; del terrorismo, frangia estrema dei gruppi rivoluzionari, teso a clandestinità e azioni violente. È la nascita delle BR che dal primo sequestro del dirigente della Sit Siemens Macchiarini arrivano al rapimento Sossi; un rapimento durato 35 giorni, in grado di permettere alle BR di raggiungere notorietà nazionale fino al sequestro e all’uccisione di Moro nel 1978. Contemporaneamente nascono altri gruppi terroristici come i Nap (Nuclei armati proletari), ex di lotta continua ed ex detenuti, i Nar (Nuclei armati rivoluzionari) e un’infinità di sottogruppi.
Ma oggi è il 1980 e il sole continua ad essere se stesso sopra la calda città di Bologna. È il 2 Agosto e un boato squarcia il cemento che come massa cade. Poi ferri, vetri, l’impazienza del tempo, i sogni pressanti del presente sono, nell’istante decisivo, coperti.
L’orologio è fermo alle 10e25. Sotto il cielo inoffensivo la stazione di Bologna è trascinata a terra, è legata, è sottomessa. Il peso che prima sosteneva e proteggeva l’occupazione degli uomini ora li tiene prigionieri, soffoca, preme cemento e ferro contro chi è inerme. Il peso è già il dopo del tempo, è il prosieguo, la propria conseguenza. Lo scoppio è il frammento dell’istante, il lampo che imprime la giravolta agli eventi. Un contrattempo o il fulmine che illumina le tenebre rendendole più scure, più affamate. Le macerie nascondono. Il crollo e le macerie accendono una rivolta contro la fine.
La stazione di Bologna è crollata, ha sotterrato il treno Ancona-Chiasso fermo al binario, ha investito il piazzale dei taxi, ha cancellato vite e segnato con la sua forza crudele duecento persone. Chi è lì accorre. La città grida, svaluta l’odio inseguendo la speranza che stringe gli uomini verso il potere. Auto private, autobus e lettighe trasportano i feriti agli ospedali, altri cercano a mani nude, mezzi di lavoro che operavano vicino si spostano per offrirsi d’aiuto. Tre ore dopo la fine, le vittime sono 40. Poi 60, poi 85.
Una delle ipotesi è che il disastro possa essere stato provocato dallo scoppio di una caldaia ma la notizia è immediatamente smentita per il ritrovamento dei tubi in ordine e senza guasti. Alle 13e40, il quotidiano la Repubblica riceve la telefonata del gruppo insurrezionalista Nar che rivendica l’attentato. Alle 17 i Nar, in una telefonata alla redazione torinese dell’agenzia Italia, rivendicano ancora l’attentato, mentre all’Ansa di Genova un’ulteriore telefonata dei Nar smentisce la rivendicazione.
Affermare e negare è il gioco del potere che tenta di propagare le proprie maglie attraverso un dispendio di energia irrisoria. Ma è anche l’esercizio delle scimmie che per muoversi tra gli alberi hanno bisogno di saggiare la resistenza dei rami, così li afferrano e li spezzano per misurare la certezza della loro avanzata, per evitare un falso appoggio. Il gioco del potere ha bisogno dell’azione di tenuta, di salvaguardare l’avanzata per raggiungere l’obiettivo. Disperdere energie è morire. Risparmiarle, dosarle, è la sopravvivenza obbligatoria della minoranza. Generare confusione, creare incertezza, nascondersi nel garbuglio dell’epocale e dell’insignificante è l’asse portante per affermare la propria inesorabile avanzata perché ciò che non serve direttamente a uccidere è solo utile e ciò che può permettere di uccidere è temuto.
Passeranno anni prima di conoscere la verità sulla strage. Tre processi, tra depistaggi, nuove accuse e assoluzioni. 1995, 2007 e 2020: per le sentenze che condannarono membri del Nar, della P2 e dei servizi segreti deviati.
Trentacinque anni per accertare colpe e intenzioni, per schivare il dolore di una specie contro l’altra. Anni che delavano i ricordi in cui i ceppi di commemorazione diventano ornamenti ai giardini. I fatti si dimenticano. La storia si dimentica. Non a causa del benessere che qualche anno dopo risollevò la vita degli italiani né per l’azione propagandistica di ottundimento data dal consumismo, dalla sua macellazione verso gli oggetti e l’uso. In Italia si dimentica per una forma strana, ambigua, di intimità con il silenzio. Come se ci fosse la consapevolezza che i morti non sono persone. I morti non possono essere traditi, a meno che non li porti con te nel tuo cuore e faccia crudeltà lì.
Photo by David Becker