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Montorfano | AI

Dalla macchina di Turing, passando a Deep Blue fino a ChatGPT, la domanda che già nel Seicento Pascal e Leibniz ponevano: “Può una macchina pensare?” rimane aperta. La parola stessa “pensiero” risulta messa alla prova, complicata e vasta fino all’inganno. Turing, con il test che porta il suo nome, cercò di identificare se un computer possa dimostrare la stessa intelligenza di un essere umano; Deep Blue dimostrò capacità di calcolo eccezionali arrivando a sconfiggere il campione di scacchi Kasparov e nel 2015, il supercomputer Minwa di Baidu utilizzò uno speciale tipo di rete neurale profonda chiamata rete neurale convoluzionale per identificare e categorizzare le immagini con una precisione superiore a quello di un umano medio.
La tecnologia e l’intelligenza artificiale pongono inevitabilmente domande fondamentali, ossia: cos’è la mente? Può la semplice materia pensare? Come si collegano mente e cervello? La mente è riducibile al programma di un computer? Nel tentativo di rispondere alle domande sulla natura della mente, i filosofi hanno percorso strade diverse, addirittura opposte: alcuni hanno posto la mente al di fuori della natura e del cervello, immaginandola come un ente astratto, ideale. La mente sarebbe così un’entità metafisica che sfugge a un’indagine scientifica fondata sull’analisi del corpo e del cervello. Gli oppositori di questa teoria, rifiutando l’impianto Cartesiano che la sostiene (res cogitans – res extensa), affermano che non esistono due realtà ma una e una soltanto, la materia, la res extensa. La mente è dunque soltanto materia, corpo, e coincide con l’organo del cervello.
Tra questi due macro schieramenti e i dibattiti che li attraversano, i neuroscienziati sono andati accumulando dati e osservazioni sulla fisiologia del cervello: sensazione, percezione, memoria, apprendimento, emozioni. Sappiamo così che il nostro cervello non è una massa misteriosa ma una configurazione architettonica. Il talamo, ad esempio, costituisce una prima stazione di raccolta e di smistamento dei segnali provenienti dagli organi di senso, il sistema limbico controlla le nostre risposte istintive e le nostre emotività oltre a sovraintendere i nostri ricordi; infine la corteccia cerebrale alla quale spetta il compito di supervisionare l’operato del cervello.
Se il cervello e le reti neurali, sono state studiate per essere applicate all’intelligenza artificiale, il tema più rilevante e che spaventa ogni qualvolta pensiamo a una possibile macchina pensante è il problema dell’intenzionalità. La dottrina scolastica aveva introdotto il termine “intentio” per indicare l’essenzialità del fenomeno mentale dell’intenzione e la sua caratteristica di direzionalità, ad esempio Tommaso d’Aquino identificava l’intenzione con “l’atto della volontà” che rende possibile l’attività esteriore. Ma il padre del concetto di intenzione e intenzionalità è il filosofo Frank Brentano. Per lui l’intenzionalità è la caratteristica fondamentale che separa tutti i fenomeni mentali da quelli fisici. Solo i primi hanno un “contenuto” come oggetto proprio: per esempio un desiderio ha un desiderato e una credenza ha un qualcosa che è creduto. L’intenzionalità non è allora solo la direzionalità verso un oggetto ma è l’elemento fondamentale per la comprensione dei fenomeni mentali e psicologici. Successivamente per Edelman il punto nevralgico divenne l’interconnessione e l’interazione tra l’organizzazione della materia della mente formata da neuroni, sinapsi, cellule, strati, lamine, nuclei e il mondo esterno ossia quando la materia della mente si traduce anch’essa, come l’intenzionalità, in agire pratico, in linguaggio, in comportamenti.

La mente apre le porte delle proprie meraviglie, le proprie complessità: se contassimo le cellule nervose che costituiscono la struttura della corteccia cerebrale arriveremmo a dieci miliardi e il numero di sinapsi che collegano le cellule nervose un milione di miliardi di connessioni. Se si contasse una connessione sinaptica al secondo -dice Eddy Carli – si finirebbe dopo circa trentadue milioni di anni.

Questa complessità è comunque ciò che si cerca di ottenere con l’Intelligenza Artificiale: tentare di riprodurre ciò che fa la mente dell’uomo utilizzando i computer come sistemi fisici e simbolici capaci di operazioni cognitive. “Non è solamente fare ciò che fa la mente, ma è farlo nello stesso modo in cui opera la mente” questa è l’intenzione dell’Intelligenza Artificiale. Pensare, agire, avere stati mentali e di coscienza, avere intenzionalità, questi sono i temi di ricerca e sempre queste le frontiere a cui guardiamo con timore.

Geoffrey Hinton, uno dei padrini dell’Intelligenza Artificiale, di recente ha detto: “Al momento, vediamo che il GPT-4 eclissa una persona per quanto riguarda la quantità di conoscenze generali che possiede. In termini di ragionamento, non è altrettanto bravo, ma riesce già a fare ragionamenti semplici”, spiega. “E dato il ritmo dei progressi, ci aspettiamo che le cose migliorino abbastanza velocemente. Quindi dobbiamo preoccuparci”. Anche perché, secondo l’esperto di reti neurali, queste intelligenze artificiali sono molto differenti dalle intelligenze di cui siamo dotati noi: “Noi siamo sistemi biologici e questi sono sistemi digitali. E la grande differenza è che nei sistemi digitali ci sono molte copie dello stesso insieme di pesi, dello stesso modello del mondo. E tutte queste copie possono imparare separatamente, ma condividono le loro conoscenze all’istante. Quindi è come se avessimo diecimila persone e ogni volta che una persona impara qualcosa, tutti la conoscono automaticamente. È così che questi chatbot possono sapere molto di più di una singola persona”.
Ciò che può regalarci la speranza di non essere definitivamente sostituiti dalle macchine è forse il pensiero che seppure queste abbiano capacità di calcolo a velocità impensabile per l’uomo, la stessa velocità non ci dice nulla sul modo in cui gli esseri umani pensano, giocano, sognano. La macchina si limita a riprodurre una particolare abilità umana. Anche il sapere pressoché infinito che una macchina può accumulare, poco ci dice sul tipo di pensiero umano. Sulla distanza tra un agire e l’angolo di incidenza del pensiero, sulla sua capacità di diventare altro da sé. L’Intelligenza Artificiale tende a ridurre i processi di conoscenza e di sviluppo dell’intelligenza al problema della memoria – una memoria intesa come una sterminata biblioteca di informazioni, catalogate e assemblate in qualche luogo del nostro cervello. Ma questa non è la memoria umana, è ancora calcolo. Nell’uomo la memoria è connessa a quella particolare forma di conoscenza data dall’interazione con l’altro e dalle capacità di relazionarsi agli altri esseri umani, nella vita quotidiana. Alla sua forza di trasformazione non di tipo computazionale ma, semplicemente, sentimentale. Il lusso dei dettagli attraverso i quali si incontra il mondo.

 


Foto di Simon Berger

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