Montorfano | Articolo 10
Questo lavoro di Chiara Criniti, intitolato Articolo 10, vuole raccontarci la dolorosa presenza dei migranti sul territorio. Il loro viaggio per mare, il rocambolesco arrivo ai limiti della morte, la nostra Costituzione che ci rammenta il dovere umano verso “l’altro” e il diritto d’asilo dello straniero nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Questo è ciò che, una volta scoperto il messaggio, vediamo e ci aspettiamo di vedere.
Vorrei però fare un passo indietro. Fingere di non conoscere. Sforzarmi di non cedere alla preoccupazione, così da non correre fino all’ultima pagina della storia. Vorrei semplicemente guardare. Accettare il privilegio dell’osservatore casuale che tenta di mettere ordine nelle emozioni che lo investono.
Allora mi affaccio, e vedo una boa che il mare ha lasciato. Una cima usata, gettata forse tra la plastica e gli avanzi. Due cose fisiche, materiali, raccolte e posizionate in uno spazio espositivo di pietra con una finestra che aggetta su un fuori sconosciuto. Basterebbero questi pochi elementi per costruire una storia di rinascita. Ma se guardiamo con attenzione il loro posizionamento nello spazio che poca luce investe, qualcos’altro si affaccia. La boa inclinata su un fianco, appoggiata al fianco, non tocca terra. È sospesa. La cima d’ormeggio, un tempo unione tra terra e mare, oggetto di sicurezza tra il pontile e la propria vita, tra la barca e i suoi territori, ecco questa cima che cade a terra a un dato punto della sua lunghezza, si sfalda. E si aggroviglia. La pietra della stanza con il suo peso ora sembra lieve, offre il proprio supporto. Non è più grotta, prigione, ma l’offerta di un’esposizione. Di un lasciar mostrare… Sospensione, groviglio, supporto. Non è forse questo il piacere preliminare della parola? Non è forse da qui che la cosa esprime la propria legittimità, il proprio desiderio, esprime ciò che essa stessa può? E sotto questo potere non si dipana forse anche la semplice apprensione conforme a un bisogno? La cosa si sposta, il rango da cui proviene supera la propria datità, si nobilita a parola. Una parola che non lascia il segno della propria voce. Una parola che tace. È la parola scritta. Parola cucita. Parola fuoriuscita dalla cosa.
In questa breve storia che si mostra al nostro semplice affacciarci e guardare l’opera di Criniti ci sono un prima e un prosieguo. Il nostro guardare questi oggetti che il gesto dell’artista ha trasformato in un divenire – e poi in un risalire fino all’uomo – ha un precedente e un oltre. Ciò che li precede è il loro essere scarto, rifiuto. È il rigetto del mare. È l’abbandono del mare sulla terraferma. È lo strappare del mare e l’incuria dell’uomo.
È una storia che possiamo solo immaginare. Una storia vissuta in un altro luogo, al largo, dove gli occhi non arrivano e le persone che lo frequentano giudicano trascurabile la perdita. Sono oggetti di poca cosa, poco valore, e sono già stati sostituiti. A questo piacere di dissoluzione si affianca anche una rivoluzione data dal riscoprire. L’artista li ha cercati, li ha trovati. Abbiamo allora la magia attraverso il caso fortuito dell’incontro.
Se il tempo presente ci mostra il fare dell’artista, la nostra attesa sulla soglia della sala, il nostro guardare l’opera con la propria storia depositata sulla superficie logora degli oggetti e il loro posizionamento all’interno dello spazio, ci spinge con forza in un oltre. Ci obbliga oltre la soglia. Perché la contemplazione non consuma ciò che essa contempla ma rinnova la propria fame e la propria sete.
Abbiamo allora gli oggetti provenienti da una storia sconosciuta. Abbiamo il loro abbandono e il loro stare in un altro posto, il loro vagare per acqua e il loro stare sulla sabbia, tra le scorie. Abbiamo il loro ritrovamento, il caso. Abbiamo un fare che li ordina, li pensa, li dispone. Abbiamo un sollevarsi degli oggetti, un ultimo perenne grido che li innalza a desiderio, a bisogno. Li innalza all’inizio della parola. Ma abbiamo anche un tempo che frana. Abbiamo il gesto umano che con violenza ha sventrato la cima, l’ha strappata dall’ordine della propria unità. Questo gesto trasformativo azzera il passato, l’uso per cui la cima era stata pensata. E a tanta violenza segue l’infinita pazienza. Dal gesto che l’ha sfigurata al gesto che la ricompone, riunisce il proprio interno, tenta una nuova vita per ciò che ormai erano le sue viscere. E nel ricomporlo qualcosa va oltre: la forma snaturata si rinatura. Ad ogni centimetro di tessuto che l’ago perfora, entrato come incubo e come abisso infinito, ne esce mondo, luogo delle cose finite, luogo di un significato. Ma possiamo forse consumare le parole in questa stanza oscillante tra la brutalità di una prigione e la tenerezza dell’accoglienza? Un’accoglienza prigioniera di un tempo e di un rifiuto in cui qualcuno tenta di forzare la risalita del sentimento? Perché le parole che noi vediamo e leggiamo sul tessuto appeso al muro sono figlie del lento bucare dell’ago sorretto da quelle stesse mani che hanno prima raccolto la cima e poi l’hanno sfaldata. È uno scrivere guidato dall’ambiguità del piacere che mescola il valore della soddisfazione con quello dell’aspirazione. Questo scrivere non dice ciò che scrive. Non è un monito. È un rammendo. E come tale non vede ciò che del resto, resta. Teso nel proprio piacere di riparare l’irreparabile omette il cuore pulsante dell’amore: l’inconciliabile.
Questo è, a mio parere, il frame più torbido e crudo dell’installazione di Chiara Criniti. Ogni azione che si innerva nel tempo dello scarto, mostra un’intenzione che è la mano di chi manipola e il cielo sopra i propri scopi è solo la nascita della forma o la forma della sua nascita, l’articolazione di una trascendenza. Un oggetto snaturato, un oggetto perso, un uomo che è l’oggetto di questo perdere e di questo rifiutare, potrà conoscere la propria salvezza attraverso l’altro, l’altro che lo raccoglie, l’altro che amandolo lo conserverà nella propria drammaticità. Perché tutto ciò che risorge non sarà mai più il proprio passato e unirà al tempo sconosciuto l’idea e l’ideale di qualcosa che si mette al riparo. Per non piangere o per dare tutte le lacrime al mondo che l’ha rapito.
Chiara Criniti | ARTICOLO 10 | Installazione | 2023
Boa e cima da ormeggio di recupero, tessuto di recupero, testo dattiloscritto su vecchi fogli A4, manoscritti in varie lingue.
Traduzioni a cura della Cooperativa Rinascita di Copertino (Lecce)