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Montorfano | Futuro perfetto

Quando usiamo o sentiamo usare la parola “viaggio”, sembra che intorno a noi si spalanchino subito tutte le delizie del mondo e che un vento di libertà ci passi accanto, regalandoci la leggerezza dell’ombra in una giornata invasa dal sole feroce.
Si pensa al viaggio e si sogna. Non importa quanto ci sposteremo nella realtà. Un panorama non è più lo sbiadito compagno della quotidianità ma un’età della pienezza dove la parola guardare ritorna alla sua antica capacità di regalare stupore.
Per la maggior parte di noi, viaggiare è una pausa, un frammento fuori dall’ordinarietà; se per alcuni rappresenta un disperato bisogno di vita, per i più è il tempo dell’avere tempo, la cessazione dei doveri verso la società, la riappropriazione delle proprie passioni, del proprio spazio intimo: poco importa se questa intimità verrà vissuta nel silenzio di un tramonto, tra le braccia di chi si ama o nel frastuono dei divertimenti collegiali. I giorni non sono più leopardianamente desiderio di futuro e voracità del domani ma contrazione nell’istante perpetuo, pienezza che salva se stessa. Realtà e illusione, nel viaggio, si riconciliano; vivere e sognare si toccano con tenerezza; felicità e infelicità che si distribuiscono nella vita qui sembrano delavarsi in una progressiva accelerazione dove lo spazio temporale si contrae nella totalità del benessere e la tristezza è spinta verso la propria degenerazione.
Perché non importa se abbiamo avuto viaggi pessimi, tristi o noiosi, la parola viaggio ha il potere di farci dimenticare le esperienze negative tingendo tutto con i propri colori sgargianti. Sembra quindi che questa parola sia legata al potere del ricordo e il ricordo è spesso nostalgico e selettivo: trattiene il bene e lascia scorrere il male.
Così il racconto di un viaggio fatto a distanza di anni si contrae in poche espressioni; incapaci di narrare nel dettaglio l’esperienza vissuta, ciò che condividiamo sono aggettivi legati al sentimento come una fragranza di fiori che passa quotidianamente e misteriosamente sotto casa appena pronunciamo determinate parole.

Ricordare un viaggio è continuare a nutrirsi del sogno che l’ha generato e dell’esperienza che abbiamo attraversato. La selezione del ricordo ha il potere magnifico di coprire eventuali tinte fosche, momenti di disillusione o frammenti noiosi che provammo. Ricordare il viaggio è continuare a sognare nella libertà di svincolarsi da tutte quelle piccole o grandi sventure che colpiscono o minacciano l’uomo. Ogni viaggio ricordato mantiene in sé le illusioni che l’hanno programmato e cercato. Le illusioni che nel prima e nel dopo cancellano le intrusioni che lo avvicinarono alla vita spostandolo dal sogno.

Il viaggio per mare è un esempio calzante: percepito da sempre come l’emblema della libertà e dell’avventura, testimoniato da equipaggi eleganti e abbronzati su un mare benevolo, spesso si omette che fino a qualche decennio fa era per tutti, ufficiali, comandanti o semplici marinai, un vero e proprio inferno. La storia marittima offre molteplici esempi della dura vita a bordo: dagli spazi angusti e scarsamente aerati, alla difficoltà nel trasporto dell’acqua potabile che dopo pochi giorni si trasformava in una pozza putrida di batteri, fino alla quotidianità vissuta in modo estenuante a stretto contatto con gli altri. Ancora oggi, salendo su una barca vela, pronunciamo la preghiera di portare solo il meglio di noi stessi, consci che le intemperanze o la negligenza, anche solo date per stanchezza e sfinimento, sono per la vita a bordo un fiammifero acceso nell’aria inquieta di benzina.
Ma nel ricordo, dicevo, tutto si trasforma e prende il profumo delle rose. Gli esploratori con i loro dolori diventano damigelle accomodate in poltrona per l’ora del tè, e i naviganti, che erano definiti esseri tra i vivi e i morti, romantici amanti dell’orizzonte e dell’infinito.
Ricordare è sempre nostalgico e la nostalgia porta il presente, nel suo “essere stato”, a divampare nel futuro. Un futuro perfetto.
Non è questione, come spesso si dice, di fuga dalla realtà, viaggiare non è il ripudio della quotidianità. Konrad Lorenz asseriva che ciò che distingue l’uomo dall’animale è la curiosità e la capacità di apprendere, di rinnovarsi. Una vita senza curiosità degenera nella noia del mero esistere, un essere nel mondo che lentamente si spegne nel non senso, nello scivolamento verso il nero del vuoto. Il viaggio incarna questa curiosità, il ricordo e la nostalgia che spingono costantemente a un oltre, un dopo e un incessante: ancora. Credo sia questa caratteristica che rende la parola viaggio così immaginifica e potente. Tangente alla vita, il viaggio ha delle conseguenze, così come la curiosità ci conduce spesso al limite di noi stessi. Cieli da scoprire e deserti nei quali sopravvivere, mari assolati come tempeste e incendi ai quali sopravvivere. In entrambi i casi, in questo unico tempo che scorre, una volta terminato, la frase più comune che sentiamo è: peccato che il tempo sia volato. La vita sembra accelerare nel viaggio così come sembra scorrere senza sentinelle o controllori. “Fugaci giorni! A somigliar di un lampo son dileguati” scriveva Leopardi ne Le ricordanze.
La parola viaggio è allora tangente alla vita. E la conseguenza di essere in viaggio non è inscrivibile in quella serie di fotografie scattate al tramonto con i sorrisi migliori o con la conta dei giorni che si sgranano verso un termine. Il viaggio è in lotta con il proprio fallimento. Così come la vita si contrae e supera la morte che con ogni mezzo salva se stessa.
Allora, ciò che rende così bella l’espressione viaggio è la lealtà al proprio franare, l’autentica curiosità che porta il ricordo alla meraviglia dell’invenzione e alla pratica del rischio dove la noia della ripetizione è vinta dalla forza della giovinezza.

 


Photo by Austin Neill

 

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