Montorfano | Thérèse Dreaming
Sono spesso segreti gli amori che si spartiscono con un quadro. Tènere e innumerevoli le solitudini al punto da non saper dire quale, per prima, lasci la sua traccia, così ravvicinate da impigliarsi l’una nell’altra come un groviglio di tenebra che cade nel mistero della vita cercando di raggiungerci. Ed entra qui un voluminoso odore d’estate, di bordure azzurre di fiori con le loro malinconie, un richiamo leggero del vento che va alla deriva perdendo di velocità. In fondo, è sempre tutto molto semplice. Nulla di più facilmente riconoscibile di una stanza arredata: una credenza, una sedia, una dormeuse dove una giovane ragazza si fa cullare dal sole. Aperto davanti a noi questo quadro, nell’economia dei suoi colori, si offre agli occhi con la tipica formula dell’ingenuità: “io non posso nuocere”, che è il disarmo estremo e minaccioso al proprio cuore.
Anche la luce che penetra da un dove altezzosamente o ironicamente posto fuori dall’immagine disegna una partita tra gli oggetti e i soggetti tipica di un ambiente familiare: il gatto con gli occhi socchiusi che lecca il latte dal piatto, un piede sulla sedia a fermare lo scivolamento del corpo, il grande cuscino verde smeraldo a diminuire la durezza delle spalle preparandosi a mescolare le voci della vita a quelle del sogno. Poi la camicia per un tiepido pomeriggio di riposo, cosparsa di grinze, di increspature che accennano a una commozione e sulla stessa linea orizzontale, la trasparenza rosea del vetro, il nero che la contrasta come una montagna, un contenitore di latta, le pieghe dello straccio lasciato aggrappato tenacemente alla credenza.
Sarà per quel segreto intimo ormai già impigliato all’invisibile vento che passa, per il desiderio amoroso che spesso gonfia di grigio la leggerezza affascinata delle illusioni, ma qualcosa scuote le acque chiare di questo quadro come uno strano intrico di rovi, una baracca da dove qualcuno sta piangendo e scuote la testa, svuotato e perso. Mi avvicino, come se il faccia a faccia con l’immagine potesse unirmi a lei nell’inevitabile, regalarmi un predicato del bene che sciolga le mie reticenze, la mia timidezza. Mi fermo, guadagno del tempo. Con l’operazione tipica delle rovine, chiedo a me stesso: esiste un centro antecedente a questa mostra di una delicata rassegnazione? E poi, facendo un passo avanti: cos’è che dilata questa stessa luce filtrata e la trasforma in una possibilità d’avventura? Perché avvicinandomi ancora e fissando la massa grumosa dei colori a olio, mi sforzo di delimitare il loro spessore come se volessi proteggermi, tenendomi a distanza? Qualcosa è posato come uno scambio di dolcezze, qualcosa come una carezza e un decollo, una storia che è già una vicissitudine, confondendo questa stanza davanti a noi con un’incertezza essenziale, uno sforzo che accresce l’indecisione e il dubbio sopra la distesa bianca della pelle che diventa via via più cupa.
È qualcosa di debole, quasi insignificante, un mormorio, un blocco inarticolato, l’ombra della cosa che cade fuori di sè, un’anomalia, un livido che avanza e si ritira, una minuzia, una compassione in una confusione di nubi.
È un’ombra, una lingua di tempesta. Un nulla che soffre, ma meno del soffrire, un’incertezza, un frammento d’oscurità che fugge dalla corolla rossa e bianca che l’avvolge. E’ un contatto, un residuo materiale, uno stigma nel centro più segreto del corpo. E’ una striscia, un grumo, una galassia dai bordi sfrangiati. E’ una macchia, l’orogenesi di una macchia. Il suo formarsi è una strana partita con il tratto a cui è fedele. E’ un gioco, il gioco di un fare, di uno scarabocchiare; gioco di venature che si concedono senza che sia possibile distinguerle dal circuito arterioso che le sostiene, righe tracciate sopra altre righe rivelanti un mondo di fessure, micro-mondi da perlustrare, spazi piccolissimi che ci incitano ad entrare. La macchia è quindi una profondità. Atipica, in quanto aderisce alla “cosa” sotto di lei fino a farla scomparire, a cancellare il supporto del proprio esserci, a sostituirvisi. Ma è anche una vetta alla ricerca del proprio chiarore. E’ un’altezza, perché il suo ricoprire è l’auspicio di un desiderio in atto. Un’attrazione che non è la forma di una risposta ma quella di una sfida nel segreto, nell’ambiguità. E’ una seduzione che conserva l’ipotesi di un duello. E qui, su Teresa, sopra Teresa questa macchia che non osa dire il proprio nome o la storia di cui è testimone, marca, si marca, urta l’oggetto e lo impasta, deborda dalla trama bianca e delicata del cotone, mobilitando la nostra anima e insieme sfaldandola, accusandoci di giocare nell’ordito del più spietato fra gli erotismi.
Therese dreaming, 1938 | Olio su tela, 150×130 cm | New York, The Metropolitan Museum of Art Collezione Jacques e Natasha Gelman
L’indizio di una violenza e di una ricchezza che chiamano Teresa alla nudità essenziale, al suo contenuto esposto, necessario e ancora inespresso per l’amore.
Preminente e tattile il suo corpo è il termine assoluto, evidente, la parola che irrompe nel mondo rivoltandolo con il proprio equivoco, i bordi del proprio significato avvolti dall’indecisione, dalla messa in opera della fantasia che è lo scambio della parola nel dialogo. Teresa non parla, fa parlare di sé.
Allora, ormai a una spanna dalla tela, inizio a riavvolgere questa storia avventurosa e tenera che la macchia ha costruito spingendo questa donna e questa bambina ai limiti del cielo, lasciandola davanti ai nostri occhi come l’impalcatura di un colosso nel deserto. Sotto di me iniziano a comparire i neri. Compaiono delle fasciature, bordure intorno all’immagine. Ombre spesse dalle sedie e dal mobilio, nero che si arrampica per formare un drappeggio, un sipario su tutto ciò che fino ad ora si è concesso.
Teresa è in bilico. Arrampicata sopra la luce e invasa da un dolore, una smorfia che si arresta come prima di una morte. Un dolore e un vuoto, l’esperienza del futuro sconosciuto che cade a pezzi dall’onestà del suo corpo. Lei sprofondata nella grazia, accesa da una chiarezza sospettosa, turbata nella verità del proprio divenire una lontananza inaccessibile. Teresa è il volto che compare nella minaccia e nello splendore, è la bellezza. E quando la luce la chiama come un censimento, a questa luce lei risponde con la stessa altezza dei grattacieli che visitano dall’alto la vita inserendovisi come un cuneo, un inserto che lacera lo stesso fluire a cui prende parte. Teresa è sul bordo. Teresa è il bordo. E la sua avventura racconta l’istante in cui tutto il tempo si espone con la propria ossessione di demarcazione e insieme, è la frantumazione, ciò che è impossibile da riscuotere e che fa del nulla la propria volontà. Teresa è la forma pungente e sospensiva del punto su tutto ciò che scorre. E’ lo spartiacque, l’argine ancora incompiuto per quella massa d’acqua che sta per abbattersi. E mentre noi le voltiamo le spalle accingendo ad andarcene, le sue mani intrecciate tra i capelli neri, i suoi gomiti così spigolosi, dicono di lei che è pronta a quell’impatto, pronta nell’attesa allo spopolamento, all’oblio di sé, con la tranquillità del sapere che questo mondo è disastroso, ma pur sempre il luogo in cui il piccolo, infinito fiore, deve fiorire.
1 Cfr. Le Plaisir au dessin, Jean-Luc Nancy, Éditions Galilée, 2009, pp. 30-45
2 La classicità del quadro prende ulteriore significanza dall’affermazione di Balthus: “Massaccio, Piero della Francesca, Beato Angelico, Masolino da Panicale (…) copiarli, esser loro vicino, scoprire i segreti dei colori. (…) Fare opera sacra, dunque, poiché si tratta di uscire dal caos, dall’informe (…). Memorie, Balthus, Abscondita, 2015, p.37, p.140